Archivio mensile: aprile 2012

Il cornuto

Indice delle puntate precedenti di Sul retro del Teatro Massimo di Palermo

Il brigadiere Pautasso e l’appuntato Pellegrino arrivarono sul luogo del delitto cinquanta, al massimo sessanta, secondi dopo il fattaccio: erano nella strada a fianco quando sentirono gli spari e dovettero soltanto mettersi a correre e girare un paio d’angoli delle vie. Con tutta la prudenza dovuta alla lunga esperienza, armi in pugno, diedero uno sguardo oltre l’angolo da cui erano sembrati provenire i colpi, pronti a buttarsi indietro prima di ricevere una scarica di proiettili: la strada era vuota, o meglio, quasi vuota. C’erano infatti due corpi a terra e quattro corpi in piedi, questi vistosamente di turisti; mancavano completamente i palermitani che solitamente, a quell’ora, frequentavano la stradina del centro storico; in compenso si vedevano ancora le tende dei negozi ondeggiare dopo l’ingresso frettoloso dei passanti, dimostrazione del fulmineo rigetto di ogni possibile testimonianza.

Fortunatamente le due coppie di turisti si misero subito a disposizione delle forze dell’ordine; i primi a parlare furono due coniugi svizzeri, professori di storia dell’arte a Zurigo, che in un italiano legnosamente perfetto dichiararono: «L’uomo in mezzo alla strada è stato ucciso dall’altro che giace sul marciapiede. Sono usciti dal quel bar correndo, uno dei due ha sparato alcuni colpi all’altro, gli ha dato il colpo di grazia alla testa e poi si è suicidato.» Descrizione chiara e coerente degli eventi da parte di testimoni affidabili, il sogno di ogni carabiniere.

La seconda coppia era ancora meglio, due ragazzi giapponesi che, in un inglese che persino Pautasso e Pellegrino capirono benissimo, dissero: «Stavamo riprendendo la strada con la nostra videocamera ad alta definizione, possiamo farvi vedere subito il filmato.» A meno che Pautasso e Pellegrino non fossero morti e arrivati meritatamente nel paradiso dei carabinieri, voleva dire che quello era il giorno dei miracoli. Il delitto era avvenuto esattamente come descritto dai due svizzeri, in più erano perfettamente identificabili tutti quei testimoni indigeni, così rapidamente scomparsi dalla strada. Prima ancora che arrivassero i colleghi, Pellegrino aveva acchiappato un paio di frequentatori abituali del bar che, costretti dalla nipponica evidenza, gli dissero ciò che può essere così tradotto in italiano: «Calogero è entrato nel bar e ha detto a Salvatore: “Tu mi hai preso mia moglie e io ti ammazzo.” Poi lo ha inseguito in strada, gli ha sparato tre o quattro colpi alla schiena ed uno in testa e si è suicidato».

Caso chiuso prima ancora di aprirlo: se questa volta il capitano Catania non era contento di loro, tanto valeva che chiedessero il congedo. Catania fu molto contento e, una volta tanto, prodigo di elogi.

Le grane incominciarono quando venne interrogata in procura la moglie dell’assassino, causa, secondo le concordanti dichiarazioni di una dozzina di testimoni, dell’intera tragedia. La donna, tarchiatella e con la faccia da tranquilla massaia, sconvolta dall’accusa di infedeltà, smise di piangere e negò nel modo più assoluto di aver mai tradito il marito: conosceva a malapena e di vista Salvatore; non sapeva nemmeno dove abitava; non si sarebbe mai sognata di mettersi con lui; voleva bene a Calogero che era un uomo d’oro, anche se molto geloso. Sfidò chiunque a portare le prove dell’adulterio, si appellò alla Madonna e a Padre Pio, ricominciò a piangere e non smise più.

Era ovviamente possibile che negasse per la vergogna o per la paura delle conseguenze: conseguenze famigliari o sociali, perché carabinieri e magistrato erano stati precisi ed esaurienti nel garantirle che l’adulterio non era un reato e che, se anche avesse tradito il marito, niente avrebbe fatto o potuto fare la legge contro di lei. La testa al toro la tagliò la suocera, la madre dell’omicida, che prese le difese della nuora con tutta la decisione che il suo dolore permetteva. «Calogero era gelosissimo,» disse, «proprio come il suo povero papà che mi faceva fare una vita d’inferno, ma sono sicura che Santina non lo ha tradito».

L’altro problema da affrontare era: dove diavolo l’assassino aveva preso l’arma del delitto. Domanda cretina ma fondamentale, visto che Calogero era incensurato e non era noto per avere rapporti con malavitosi: cretina, perché armi del genere si trovavano facilmente in vendita; fondamentale, perché sapere quando si era procurato la pistola avrebbe potuto far capire se l’omicidio era stato improvvisato o meditato a lungo. La perquisizione a casa dell’omicida non aveva dato risultati: niente armi, niente proiettili, nessun documento, non dico compromettente, ma almeno interessante. La speranza di trovare la classica lettera anonima, nella quale si informava il cornuto della gentilezza che gli faceva la moglie, era andata delusa: arma del delitto e delitto stesso sembravano nati dal nulla.

A casa di Salvatore la perquisizione aveva dato risultati più interessanti: c’erano un gigantesco televisore al plasma, cassette e DVD pornografici sufficienti a rifornire una videoteca del settore, riviste oscene in quantità e un enorme letto matrimoniale, con lenzuola leopardate in stile con la letteratura preferita dall’uomo. I vicini di casa avevano confermato ai carabinieri che c’era un via vai di donne di tutti i colori: anche siciliane? anche siciliane; ne conoscete qualcuna? ma figuratevi, quelle sono donnacce e noi siamo brava gente; qualcuno era venuto recentemente a cercare, magari a litigare, con Salvatore? nessuno.

La conclusione del magistrato fu che Calogero era diventato matto per la gelosia, aveva preso fischi per fiaschi ed aveva sparato alle sue ossessioni che erano state impersonate dal povero Salvatore: chiudiamo subito questa inchiesta ché ne abbiamo già fin troppe aperte.

I due amici quella sera fecero festa a casa di Pautasso: Maria era di turno, Rosalia aveva portato Sasà dai nonni e si fermava qualche giorno da loro, potevano fare gli scapoli e brindare al successo. Si sa come vanno a finire queste cose, si beve troppo e ci si fanno venire strane idee: purtroppo ai nostri eroi vennero idee di lavoro.

«A me non mi quadra.» Incominciò Pellegrino.

«Nemmeno a me.» Replicò Pautasso.

«È stato troppo facile».

«Troppo facile forse no, in fin dei conti tra la testimonianza degli svizzeri, il filmato dei giapponesi e quello che hanno detto i clienti del bar, dubbi su come andate le cose non ce ne sono. Però, ci credi tu, che uno diventa matto così, di colpo, senza un motivo?».

«Un motivo ce l’aveva e anche buono, per uno così geloso. Quello che mi chiedo è perché non ha sparato anche alla moglie. È quello che succede di solito in questi casi: prima uccidono la moglie, con comodo a casa, e poi l’amante».

Pautasso bevve un mezzo bicchiere di vino e disse: «Almeno poteva farle una scenata, che so, riempirla di botte e poi andare a sparare all’altro. Sto cominciando a pensare che è stata tutta una messinscena, che Calogero sapeva benissimo che la moglie non lo aveva tradito e che ha sparato a Salvatore per qualche altro motivo».

«E poi perché si è suicidato? Se avesse ucciso anche la moglie lo capirei, ma così… lì, in mezzo alla strada, senza neanche provarsi a scappare… Cosa ne dici,» propose Pellegrino, «ficchiamo il naso?».

Decisero di ficcare il naso. In quei giorni facevano servizio a piedi in quella zona, potevano risentire i testimoni che avevano già interrogato subito dopo il delitto; se facevano qualche altra domanda apparentemente di routine forse riuscivano a tirarne fuori qualcosa di nuovo, senza che si chiudessero a riccio come al solito.

In effetti, il giorno dopo, i testimoni e i conoscenti delle vittime erano più rilassati del solito, i fatti erano talmente chiari che nessuno aveva troppa paura di essere coinvolto. Circuìti con le debite maniere – diciamo che fecero finta di lasciarsi circuire: mostrare un po’ di spirito collaborativo con gli inquirenti oggi poteva servire come ottima scusa domani, per dichiarare di non sapere niente – gli interrogati qualcosina in più dell’abituale la dissero. La gelosia di Calogero non era tanto nei confronti della moglie ma degli altri uomini: era convinto che cercassero di portargliela via ed aveva fatto scenate in altre occasioni, mai comunque con Salvatore; non era però un uomo violento e nulla poteva far prevedere che le cose finissero così. Tutti confermarono che Salvatore era uno che le donne le guardava, le cercava e le trovava; ma di solito gli piacevano molto, ma molto più giovani di Santina e possibilmente forestiere, solitamente mercenarie e facilmente disponibili; però non disdegnava di certo le siciliane. Anche se non aveva mai avuto a ridire con Calogero a proposito della moglie – riuscirono a capire leggendo per benino fra le righe – ci sarebbero stati altri che avrebbero avuto motivi di discutere con lui su questo argomento; nomi ovviamente non ne vennero fuori, né con le buone né con le cattive. Era già qualcosa ma non abbastanza: soprattutto era incomprensibile perché Calogero se la fosse presa proprio con Salvatore, a meno che, diventato davvero matto, non avesse cercato per farci il tiro a segno il primo noto mandrillo a disposizione.

Pautasso sconsolato disse a Pellegrino: «Ma perché non sono andati a morire dalle parti di tua zia, lei avrebbe saputo persino i segni zodiacali».

«Non è detto, mia zia avrebbe finito per scoprire le corna di Calogero a forza di discorsi da comari, ma Salvatore è un po’ più complicato. Tanto per incominciare si permetteva la casa, il televisore al plasma da cinquanta pollici, tutta quella roba che hanno trovato i colleghi e non aveva un lavoro fisso, va bene che era praticamente incensurato però è evidente che i soldi non li guadagnava onestamente. Le prime idee che mi vengono in mente sono la droga e l’usura…».

«La droga no,» lo fermò Pautasso, «almeno non in casa: hanno fatto girare il cane in tutte le stanze. Restano l’usura, i furti, lo sfruttamento, magari trafficava proprio in donne, visto che gli piacevano tanto, e chissà quante altre possibilità ci sono ancora».

Altro per quel giorno non riuscirono a combinare; il mattino dopo, come c’era da aspettarsi, vennero convocati dal capitano Catania, che li guardò per bene e a lungo e poi chiese: «Visto che proprio non riuscite a non giocare a Sherlock Holmes, spiegatemi cosa c’è che non va questa volta».

«Non siamo convinti, è stato troppo facile».

«E vi lamentate? per una volta che non diventiamo cretini a capirci qualcosa…».

Pautasso, il compito toccava ovviamente a lui, spiegò per filo e per segno quello che avevano scoperto e, soprattutto, quello che non avevano scoperto; poi concluse: «Vogliamo capire perché Calogero, se era diventato matto, non ha sparato ad uno di quelli a cui aveva già fatto scenate di gelosia e vogliamo capire come campava Salvatore, visto che non lavorava e non risulta essere stato un delinquente abituale».

Catania se li guardò per bene di nuovo, pensò che rischiava di mettersi a litigare con il magistrato e il colonnello, tirò il fiato e decise: «Il sostituto ordina di chiudere l’inchiesta il più in fretta possibile. I risultati dell’autopsia non arriveranno prima di un paio di giorni: avete questo tempo per scoprire se è davvero solo un dramma della follia o se c’è qualcos’altro sotto. Non ho suggerimenti da darvi: agite con l’intelligenza guidata dall’esperienza, andate pure.» E, come al solito, abbassò gli occhi sulle pile di documenti che ingombravano la scrivania.

Usciti dall’ufficio del comandante, Pautasso chiese sovrappensiero a Pellegrino: «Non ti sembra che il capitano abbia messo su pancia negli ultimi tempi?».

«No, non mi… ma che razza di domanda è, scusa».

«Non lo so, una cosa così, mi è scappata, per un attimo mi è sembrato di vederlo molto ingrassato. Forse pensavo ancora a tua zia Concetta, che sa tutto di corna e cornuti dalle sue parti, e a quanto mi ha fatto mangiare l’ultima volta che siamo stati da lei».

«Allora Holmes,» cambiò argomento Pellegrino, «da dove cominciamo oggi?».

«Ah, oggi Holmes lo faccio io, visto che ci sono poche speranze di cavare il ragno dal buco… grazie Watson. Proviamo a tornare a rompere le scatole in giro e speriamo che qualcuno vuoti il sacco».

Naturalmente, nonostante il gran numero di scatole fracassate, nessuno vuotò il sacco, né quel giorno né quello successivo. La sera del secondo giorno Pautasso era a cena a casa di Maria, che una volta tanto non era di turno in ospedale, e sperava in una serata piacevole, quando arrivò la telefonata di Pellegrino: «Pautasso, sto venendo a prenderti, c’è uno che mi vuole parlare, ho bisogno di aiuto.» Come potete immaginare Maria non fu per nulla contenta: passi per la piacevole serata svanita, ma ci aveva messo quasi tre ore a preparare il dolce e le toccava mangiarselo da sola o buttarlo via; almeno novecento calorie da smaltire, va beh, avrebbe mangiato insalata per tre giorni.

«Sali, presto,» disse Pellegrino aprendogli la portiera, «abbiamo dieci minuti al massimo. Mi ha telefonato a casa uno che non mi ha detto chi è, vuole parlarmi per raccontarmi la storia di Calogero e Salvatore».

«Ma tu sei matto… e se è una trappola e ti sparano come ti vedono… hai avvertito il comando, almeno?».

«Figurati, avrebbero voluto organizzare un appostamento e tutto il resto, eravamo pronti domani mattina, e quello mi ha detto di andare da solo e mi ha lasciato mezz’ora di tempo. Comunque credo di aver capito chi mi ha chiamato: è uno di quelli che erano al bar l’altro giorno e non è un tipo pericoloso. In questo modo può salvare la faccia, non testimonia, non passa da informatore e forse noi riusciamo a capirci qualcosa. Ti ho chiamato, così se proprio è necessario mi puoi venire ad aiutare e poi puoi sentire anche tu quello che mi dice…».

«Ti ripeto che sei matto a correre un rischio simile… stai attento, accidenti, stavi per tirar sotto quel pedone… ma come faccio a sentire se devi andarci da solo?».

«Ho portato il trasmettitore che usava Rosalia nei primi tempi che abbiamo messo Sasà a dormire nella sua cameretta, voleva sentire se era ancora vivo o se aveva smesso di respirare, io la prendevo in giro ma è sensibilissimo e oggi torna buono. È a pile, io mi metto in tasca il trasmettitore, tu resti nascosto in macchina e stai a sentire la ricevente, se succede qualcosa puoi intervenire. Buttati giù adesso, ché stiamo arrivando.» E, senza lasciare all’amico il tempo di protestare, Pellegrino fermò la macchina, scese e si inoltrò nel buio dei giardini.

Io adesso i discorsi ve li traduco, così li capiamo ancora meglio di Pautasso, visto che il misterioso interlocutore parlava in dialetto stretto.

Pellegrino entrò nel vecchio vespasiano, fece quello che si fa di solito in posti del genere, finì, poi, per prudenza, avvicinò la mano alla pistola e disse, parlando al pisciatoio: «Sono io, mi hai chiamato a casa mezz’ora fa».

Miracolosamente il pisciatoio rispose: «Stammi bene a sentire perché non voglio ripetere. Tu e il tuo amico piemontese state rompendo troppo le scatole, e certa gente se la prende con noi se non vi facciamo smettere, disturbate i loro affari».

«Ho capito, continua».

«Calogero era un fesso a poker, aveva incominciato da un paio di mesi, giocava e perdeva sempre, un vero fesso ti dico. Negli ultimi tempi non lo volevamo nemmeno più nelle partite perché aveva finito i soldi, ma lui voleva rifarsi e si è giocato la moglie con Salvatore e ha perso anche quella, hai capito?».

«Mi stai dicendo che Salvatore gli ha vinto la moglie barando a poker? ci devo credere che gli piaceva una così?».

«Ma che barando e barando, non abbiamo mai barato, perdeva in ogni caso, giocava come un coglione, mai visto un incapace simile. Salvatore disse che, se gli vincevamo anche la moglie, ce lo toglievamo dai piedi, non glie ne fregava niente di Santina, ma l’hai vista che rospo… e quel fesso che faceva tanto il geloso… due giorni dopo gli ha sparato. Un fesso ti dico, non glie la toccava proprio nessuno la moglie a quello… Vattene adesso, e non ti voltare a guardare…».

«Aspetta, la pistola dove l’ha presa?».

«E che minchia ne so io… e non mi cercare in giro che tanto non ne so niente e non ti dico più niente e ci ho i testimoni che giurano che adesso sono con loro al bar».

Tornato in macchina, Pellegrino trovò l’amico che cercava di ridere piano per non farsi sentire; Pautasso continuò a sghignazzare mentre si allontanavano, fatti cinquecento metri anche l’altro incominciò a ridere, rideva così forte che dovette fermare l’auto per non andare a sbattere.

«Ma ci pensi il siciliano geloso che si gioca la moglie a poker…» disse Pautasso, piegato in due dalle risate, «alla fine era davvero solo un dramma della follia, ma la follia era iniziata due mesi fa».

«E che cosa gli raccontiamo domani al capitano? Prove non ne abbiamo.» Chiese Pellegrino quando si furono calmati.

«Gli raccontiamo quello che abbiamo sentito. Saranno tutti contenti che possono chiudere il caso e noi ci siamo tolti la soddisfazione di averlo risolto e di aver capito che non era solo gelosia, sappiamo anche come campava Salvatore».

Il capitano Catania non sapeva se infuriarsi per il rischio che avevano corso o fargli i complimenti, fece tutte e due le cose e li mandò fuori dai piedi.

Indice delle puntate precedenti

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I misteri del tavolino a tre gambe

No, non sto tralignando dalle mie abitudini che farebbero sembrare l’UAAR una congregazione dedita alla celebrazione di riti apotropaici durante i plenilunii.

È che oggi si festeggia il quarantottesimo Carnevale della Matematica, magnificamente ospitato da MaddMaths! e dedicato al Math Awareness Month.
(Ci sono anch’io, con la prima parte di un articolo che lavoro e famiglia non mi hanno permesso di completare).

Dopo pranzo ho trovato il tempo di fare un primo giro dei link e sono stato colto dalla solita vertigine, una vera e propria sindrome di Stendhal, di fronte alla meraviglia per tutte le cose che non so.

Ci sono alcuni articoli dedicati all’interpretazione ed analisi dei dati che mi hanno fatto tornare alla mente la scena del film “A Beautiful Mind”, in cui John Nash accumula su lavagne e pareti informazioni di ogni genere da correlare fra di loro: quindi, prima di mettermi anch’io a blaterare in pubblico frasi sconnesse sull’ipotesi di Riemann, decido di andare a farmi un caffè.

Al tavolo c’è mio figlio che ha appena finito di costruire un animaletto con cinque stuzzicadenti e dei groppi di scoccio: «Papà, perché non toccano tutte e quattro le zampe?».

Non è lui che è un genio di quasi sei anni, anche il figlio dell’uomo delle caverne – quello che, notoriamente, ai miei tempi, viveva sulle palafitte – alla stessa età ha sicuramente posto la stessa domanda al padre, sono io che mi lascio sopraffare dalla voglia di raccontargli quello che ho imparato nei cinquant’anni che ho più di lui.

Comincio a fargli vedere che gli stuzzicadenti si appoggiano a tre per volta sul piano del tavolo, poi prendo uno dei palloncini che il coniglietto pasquale gli ha fatto trovare nascosti fra i cespugli del giardino dei nonni – lui ha paura che il papà finisca col farlo scoppiare – e cerco di spiegargli che su una superficie curva nello spazio…

Poi mi fermo perché, per continuare in quella direzione, dovrei essere più matto del Nash del film.

«Senti, hai presente il tavolino con tre gambe che i nonni tengono sotto il portico?» È proprio con quello che io, alla sua età, ho “imparato” che per tre punti disposti a caso nello spazio… insomma che il tavolino sta sempre in piedi.

«Sì.»

«Vedi lui che ha tre gambe toccano tutte e tre, se ne avesse quattro, invece, ballerebbe.»

E lui – che scrive poco più del suo nome – prende un foglio di carta e scrive C1P8, il nome del robottino bidone aspiratutto di Guerre Stellari che viaggia dappertutto su tre rotelle.

Taciti, padre orgoglione, prima di rendere pubbliche fantasie di cui potresti pentirti…

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Il paramecio e il paradosso di Bertrand – Prima parte

Forse avete già capito che mi piace parlare di razionalità umana, questo articolo comincia con una domandina semplice semplice.

Quante possibilità abbiamo di indovinare giocando a Testa o Croce?

Vedo che qualcuno ha alzato la mano e fa una faccia stranita, immagino desideri chiedermi cosa c’entrino gli organismi unicellulari con la razionalità umana. Non c’entrano quasi niente, ma lo vedremo dopo: adesso torniamo alla domanda che ho appena fatto.

Non cominciate a sogghignare, pensando a quella moneta che aveva vostro cugino… datemi istintivamente la prima risposta sensata che vi viene in mente.

Una su due?

Risposta sensata e anche razionale, ma guardiamo un po’ quante cose stiamo dando per scontate con questa risposta.
La prima cosa che diamo per scontata è che su una faccia della moneta ci sia un’immagine interpretabile come testa e sull’altra un’immagine interpretabile come croce, ma niente vieta che una moneta coniata per un’isola tropicale mostri su una faccia una conchiglia e sull’altra una tavola da surf.
In questo caso dobbiamo prima stabilire cosa deve essere considerato testa e cosa croce, oppure, prima del lancio, toccare con un dito la faccia che scegliamo, altrimenti rischieremmo di fare a sberle con l’indigeno che ci ha proposto la scommessa.

  

Inoltre dobbiamo stabilire se “indoviniamo” quando la faccia scelta resta visibile verso l’alto o quando, invece, è nascosta verso il basso. È una convenzione della nostra civiltà che debba essere la faccia visibile, ma presso altri popoli potrebbe benissimo essere il contrario.

La seconda cosa che, probabilmente, stiamo dando per scontata è che la moneta sia perfetta, cioè che la probabilità – incomincio ad usare questa parola – sia uguale per entrambe le facce: in metà dei casi uscirà testa nell’altra metà croce.

Stiamo implicitamente usando quella nota come “definizione classica di probabilità“, in cui essa è definita come il rapporto fra gli eventi che soddisfano una certa condizione ed il numero totale di eventi possibili.
È una definizione aprioristica che non fa ricorso a nessuna prova sperimentale: non abbiamo lanciato in aria qualche centinaio o migliaio di volte una moneta reale, contando le teste e le croci, abbiamo pensato ad una moneta ideale.

P(A) = N(A)/N

Per la moneta gli eventi possibili sono due: (T; C), pertanto la probabilità dell’evento T è P (T) = 1/2 ed è identica a quella dell’evento C che possiamo calcolare sia direttamente P (C) = 1/2 sia come differenza P(C) = 1 – P(T).

Notate, però, che non vi ho chiesto quale sia la probabilità che esca, ad esempio, croce: vi ho chiesto qual è la probabilità di indovinare ed è una cosa diversa.
L’evento è composto da due fasi: nella prima si sceglie – a caso, visto che non sapremmo come decidere – la faccia, nella seconda si lancia idealmente la moneta.
L’insieme degli eventi possibili è questo (TT; TC; CT; CC), l’evento “evviva, ho indovinato” si verifica quando le due lettere sono uguali (TT; CC) e la sua probabilità P(I[ndovinare]) = 2/4.
È vero che numericamente le cose non cambiano: la probabilità è l’ovvio e istintivo 50%, ma scriverla in questo modo ci ricorda che gli eventi totali sono 4.

Adesso guardiamo cosa succede usando la famigerata moneta con due facce uguali con cui scherza quell’estroso estruso (vedasi etimologia di estruso) di vostro cugino.
Supponiamo, senza perdere in generalità, che abbia due teste, allora l’insieme dei casi possibili è (TT; TT; CT; CT) e la probabilità di indovinare è sempre P(I) = 2/4, numericamente il solito 50%.

  

Controintuitivamente, un baro non se ne fa proprio nulla di una moneta con due facce uguali – a meno che non sia abilmente capace ad indurvi a scegliere il simbolo mancante, ma questo non è barare, è circonvenzione d’incapace – per vincere dovrebbe avere entrambe le monete tarocche e prendere di nascosto quella opportuna, solo dopo la vostra scelta.

Passiamo per un momento ai dadi.

Prendiamo un bel dado cubico idealmente perfetto, con le sei facce contrassegnate da sei simboli diversi e, usando il metodo di prima, troviamo subito che ogni faccia ha la stessa probabilità P(F) = 1/6 e la probabilità di indovinare è P(I) = 6/36.
Non c’è niente di nuovo sotto il sole.

Un dado ideale è però uno strumento eccellente per simulare una moneta tarocca, per la quale la probabilità di uscita di C è diversa dalla probabilità di uscita di T.

Sulla nostra isola tropicale si usano monete quadrate che mostrano su una faccia una Conchiglia e sull’altra una Tavola da surf; inoltre, gli usi del posto prevedono che chi deve indovinare lo faccia stando steso supino sulla sabbia, guardando attraverso il fondo di vetro di una di quelle barche con cui si portano i turisti in giro per la laguna ad ammirare i pesci. Con un minimo di fantasia – i turisti sono un po’ tonti, lo sappiamo – possiamo immaginare che non sia possibile distinguere se ciò che si vede sia la faccia di una moneta o quella di un cubo con lo spigolo uguale al lato della moneta.

L'isola degli imbroglioni

Basta che 2 facce del nostro dado ideale siano decorate con la Conchiglia e le altre 4 con la Tavola per realizzare una moneta ideale per la quale P(C) = 2/6 e P(T) = 4/6. Non si tratta di una moneta reale, ma squilibrata, che, dopo un numero altissimo di esperimenti, statisticamente fornisce C nel 33,3333…% dei casi, ma di una moneta ideale che fa uso unicamente della definizione classica di probabilità.

Quante probabilità ci sono di indovinare, supposto, naturalmente, che il turista tonto non abbia la minima idea che gli astuti indigeni lo stanno brancicando per i glutei?

(TT; TT; TT; TT; TC; TC; CC; CC; CT; CT; CT; CT) è l’insieme totale degli eventi, mentre quelli che corrispondono all’evento “evviva, ho indovinato” sono (TT; TT; TT; TT; CC; CC).
P(I) = 6/12 = 50% come al solito: gli indigeni non sono più astuti del famigerato cugino, anche se giocano a Testa o Croce in maniera decisamente più scomoda.

Il risultato sarebbe lo stesso se la moneta tarocca fosse simulata con un sacchetto contenente 814 monete con due teste e 186 monete con due croci.

Se ci pensiamo bene, è logico che sia così, perché in tutti i casi la situazione è equivalente ad indovinare se una moneta nascosta in una scatola chiusa mostri la testa o la croce: comunque sia stata messa la moneta nella scatola, a mano, gettando una moneta ideale o pescando dal sacchetto, o è testa o è croce, in mancanza di altre informazioni abbiamo sempre e comunque il 50% di probabilità di indovinare.

È però ovvio che le cose cambiano se il nostro turista sa che si sta usando un dado con 2 conchiglie e 4 tavole da surf: in questo caso sceglierà sempre e comunque la Tavola, l’insieme degli eventi totali sarà (TT; TT; TT; TT; TC; TC) con P(I) = 4/6. Così come cambiano le cose se il baro può prendere la moneta opportuna dopo che noi abbiamo fatto la nostra scelta: lui vincerà sempre perché ha informazioni sufficienti per generare un evento certo.

Questo articolo, però, non è dedicato alle situazioni in cui si dispone di informazioni supplementari, ma al caso opposto in cui le informazioni sono quelle minime indispensabili o, addirittura, insufficienti.

Gettiamo due dadi ideali identici: qual è la probabilità di ottenere 7?

Chiunque sappia come funziona il classico gioco con due dadi, risponderà istintivamente P (7) = 6/36 = 1/6.

Io, invece, vi dico che la probabilità è P(7) = 4/36 = 1/9.

No, non sono scemo: sono una carogna.

Le facce dei nostri due dadi sono numerate così (0; 1; 2; 3; 4; 5) e questo sotto è l’insieme degli eventi possibili.

Schema dei valori per una coppia di dadi numerati da zero a cinque

Come vedete su 36 eventi possibili solo 4 forniscono 7 come somma, in compenso sono scomparsi 11 e 12 ed appaiono dal nulla 0 e 1.

Questo sotto, invece, è l’insieme degli eventi possibili per i dadi a cui siamo abituati.

Schema dei valori per una coppia di dadi numerati da uno a sei

Guardate che non è per nulla strano iniziare una numerazione partendo da zero, chiunque sia abituato a gestire matrici e vettori in linguaggi come JavaScript – quello in cui è programmata l’interfaccia utente di questo blog – per buona parte della sua giornata lavorativa ragiona proprio in questo modo.

Se questa considerazione non vi basta, ruberò un aneddoto dal blog dei Rudi Matematici:

«C’è un famoso aneddoto di su Hilbert che, alla stazione con moglie e figli, litigava con la consorte che gli aveva chiesto se avesse controllato che tutte e sei le valigie che avevano con loro fossero state caricate. “Le ho viste,” diceva la moglie alla fine, dopo un altro controllo: “ci sono tutte e sei”. Al che anche Hilbert ricontrolla, e contesta: “No! È la terza volta che le conto, ne manca una! Guarda, contiamole insieme: zero, uno, due, tre, quattro e cinque! Visto?”»

È immediato rendersi conto che, in realtà, i due schemi sono identici e che la domanda da porre dovrebbe essere la seguente: qual è la probabilità che la somma dei due numeri usciti appartenga alla diagonale i-esima con i compreso fra 1 e 11? (dove le 11 diagonali sono quelle che congiungono due numeri uguali, ad esempio 3 e 3 o 4 e 4, per usare valori presenti in entrambi gli schemi).

Se, però, girano dei soldi, porre la domanda unicamente sul risultato numerico della somma, senza fornire tutte le informazioni, potrebbe avere come effetto una bella rissa.

Ma c’è di più: nulla ci consente di stabilire a priori persino se sia possibile fare la somma numerica di ciò che compare sulle facce dei due dadi. Ad esempio sulle facce potrebbero esserci delle immagini stilizzate di fiori: chi di voi sa dirmi quanto fa numericamente rosa + tulipano?
È vero che con un minimo di conoscenza di teoria degli insiemi le cose si risolvono e il nostro gioco coi dadi può essere eseguito perfettamente, anche se non numericamente, – basta ricordarsi il concetto di prodotto cartesiano e decidere se [rosa + tulipano] = [tulipano + rosa], cioè se i due dadi hanno lo stesso colore oppure no – però non mi immagino seratine tranquille nella bisca sull’isola tropicale, se adotta metodi del genere con gli ignari turisti.

Se vogliamo calcolare la probabilità di un evento abbiamo bisogno di una descrizione precisa ed esauriente su come avviene l’evento ed a quale insieme di eventi possibili appartiene.

Però le spiegazioni esaurienti richiedono tempo, io voglio uscire con questo articolo prima del prossimo carnevale della matematica, pertanto per il simpatico protista, che tutti quanti abbiamo studiato a scuola, e per il paradosso di Bertrand, che non conoscono in molti, vi tocca aspettare la seconda parte.

Portate pazienza.

 

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