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Il paramecio e il paradosso di Bertrand – Prima parte

Forse avete già capito che mi piace parlare di razionalità umana, questo articolo comincia con una domandina semplice semplice.

Quante possibilità abbiamo di indovinare giocando a Testa o Croce?

Vedo che qualcuno ha alzato la mano e fa una faccia stranita, immagino desideri chiedermi cosa c’entrino gli organismi unicellulari con la razionalità umana. Non c’entrano quasi niente, ma lo vedremo dopo: adesso torniamo alla domanda che ho appena fatto.

Non cominciate a sogghignare, pensando a quella moneta che aveva vostro cugino… datemi istintivamente la prima risposta sensata che vi viene in mente.

Una su due?

Risposta sensata e anche razionale, ma guardiamo un po’ quante cose stiamo dando per scontate con questa risposta.
La prima cosa che diamo per scontata è che su una faccia della moneta ci sia un’immagine interpretabile come testa e sull’altra un’immagine interpretabile come croce, ma niente vieta che una moneta coniata per un’isola tropicale mostri su una faccia una conchiglia e sull’altra una tavola da surf.
In questo caso dobbiamo prima stabilire cosa deve essere considerato testa e cosa croce, oppure, prima del lancio, toccare con un dito la faccia che scegliamo, altrimenti rischieremmo di fare a sberle con l’indigeno che ci ha proposto la scommessa.

  

Inoltre dobbiamo stabilire se “indoviniamo” quando la faccia scelta resta visibile verso l’alto o quando, invece, è nascosta verso il basso. È una convenzione della nostra civiltà che debba essere la faccia visibile, ma presso altri popoli potrebbe benissimo essere il contrario.

La seconda cosa che, probabilmente, stiamo dando per scontata è che la moneta sia perfetta, cioè che la probabilità – incomincio ad usare questa parola – sia uguale per entrambe le facce: in metà dei casi uscirà testa nell’altra metà croce.

Stiamo implicitamente usando quella nota come “definizione classica di probabilità“, in cui essa è definita come il rapporto fra gli eventi che soddisfano una certa condizione ed il numero totale di eventi possibili.
È una definizione aprioristica che non fa ricorso a nessuna prova sperimentale: non abbiamo lanciato in aria qualche centinaio o migliaio di volte una moneta reale, contando le teste e le croci, abbiamo pensato ad una moneta ideale.

P(A) = N(A)/N

Per la moneta gli eventi possibili sono due: (T; C), pertanto la probabilità dell’evento T è P (T) = 1/2 ed è identica a quella dell’evento C che possiamo calcolare sia direttamente P (C) = 1/2 sia come differenza P(C) = 1 – P(T).

Notate, però, che non vi ho chiesto quale sia la probabilità che esca, ad esempio, croce: vi ho chiesto qual è la probabilità di indovinare ed è una cosa diversa.
L’evento è composto da due fasi: nella prima si sceglie – a caso, visto che non sapremmo come decidere – la faccia, nella seconda si lancia idealmente la moneta.
L’insieme degli eventi possibili è questo (TT; TC; CT; CC), l’evento “evviva, ho indovinato” si verifica quando le due lettere sono uguali (TT; CC) e la sua probabilità P(I[ndovinare]) = 2/4.
È vero che numericamente le cose non cambiano: la probabilità è l’ovvio e istintivo 50%, ma scriverla in questo modo ci ricorda che gli eventi totali sono 4.

Adesso guardiamo cosa succede usando la famigerata moneta con due facce uguali con cui scherza quell’estroso estruso (vedasi etimologia di estruso) di vostro cugino.
Supponiamo, senza perdere in generalità, che abbia due teste, allora l’insieme dei casi possibili è (TT; TT; CT; CT) e la probabilità di indovinare è sempre P(I) = 2/4, numericamente il solito 50%.

  

Controintuitivamente, un baro non se ne fa proprio nulla di una moneta con due facce uguali – a meno che non sia abilmente capace ad indurvi a scegliere il simbolo mancante, ma questo non è barare, è circonvenzione d’incapace – per vincere dovrebbe avere entrambe le monete tarocche e prendere di nascosto quella opportuna, solo dopo la vostra scelta.

Passiamo per un momento ai dadi.

Prendiamo un bel dado cubico idealmente perfetto, con le sei facce contrassegnate da sei simboli diversi e, usando il metodo di prima, troviamo subito che ogni faccia ha la stessa probabilità P(F) = 1/6 e la probabilità di indovinare è P(I) = 6/36.
Non c’è niente di nuovo sotto il sole.

Un dado ideale è però uno strumento eccellente per simulare una moneta tarocca, per la quale la probabilità di uscita di C è diversa dalla probabilità di uscita di T.

Sulla nostra isola tropicale si usano monete quadrate che mostrano su una faccia una Conchiglia e sull’altra una Tavola da surf; inoltre, gli usi del posto prevedono che chi deve indovinare lo faccia stando steso supino sulla sabbia, guardando attraverso il fondo di vetro di una di quelle barche con cui si portano i turisti in giro per la laguna ad ammirare i pesci. Con un minimo di fantasia – i turisti sono un po’ tonti, lo sappiamo – possiamo immaginare che non sia possibile distinguere se ciò che si vede sia la faccia di una moneta o quella di un cubo con lo spigolo uguale al lato della moneta.

L'isola degli imbroglioni

Basta che 2 facce del nostro dado ideale siano decorate con la Conchiglia e le altre 4 con la Tavola per realizzare una moneta ideale per la quale P(C) = 2/6 e P(T) = 4/6. Non si tratta di una moneta reale, ma squilibrata, che, dopo un numero altissimo di esperimenti, statisticamente fornisce C nel 33,3333…% dei casi, ma di una moneta ideale che fa uso unicamente della definizione classica di probabilità.

Quante probabilità ci sono di indovinare, supposto, naturalmente, che il turista tonto non abbia la minima idea che gli astuti indigeni lo stanno brancicando per i glutei?

(TT; TT; TT; TT; TC; TC; CC; CC; CT; CT; CT; CT) è l’insieme totale degli eventi, mentre quelli che corrispondono all’evento “evviva, ho indovinato” sono (TT; TT; TT; TT; CC; CC).
P(I) = 6/12 = 50% come al solito: gli indigeni non sono più astuti del famigerato cugino, anche se giocano a Testa o Croce in maniera decisamente più scomoda.

Il risultato sarebbe lo stesso se la moneta tarocca fosse simulata con un sacchetto contenente 814 monete con due teste e 186 monete con due croci.

Se ci pensiamo bene, è logico che sia così, perché in tutti i casi la situazione è equivalente ad indovinare se una moneta nascosta in una scatola chiusa mostri la testa o la croce: comunque sia stata messa la moneta nella scatola, a mano, gettando una moneta ideale o pescando dal sacchetto, o è testa o è croce, in mancanza di altre informazioni abbiamo sempre e comunque il 50% di probabilità di indovinare.

È però ovvio che le cose cambiano se il nostro turista sa che si sta usando un dado con 2 conchiglie e 4 tavole da surf: in questo caso sceglierà sempre e comunque la Tavola, l’insieme degli eventi totali sarà (TT; TT; TT; TT; TC; TC) con P(I) = 4/6. Così come cambiano le cose se il baro può prendere la moneta opportuna dopo che noi abbiamo fatto la nostra scelta: lui vincerà sempre perché ha informazioni sufficienti per generare un evento certo.

Questo articolo, però, non è dedicato alle situazioni in cui si dispone di informazioni supplementari, ma al caso opposto in cui le informazioni sono quelle minime indispensabili o, addirittura, insufficienti.

Gettiamo due dadi ideali identici: qual è la probabilità di ottenere 7?

Chiunque sappia come funziona il classico gioco con due dadi, risponderà istintivamente P (7) = 6/36 = 1/6.

Io, invece, vi dico che la probabilità è P(7) = 4/36 = 1/9.

No, non sono scemo: sono una carogna.

Le facce dei nostri due dadi sono numerate così (0; 1; 2; 3; 4; 5) e questo sotto è l’insieme degli eventi possibili.

Schema dei valori per una coppia di dadi numerati da zero a cinque

Come vedete su 36 eventi possibili solo 4 forniscono 7 come somma, in compenso sono scomparsi 11 e 12 ed appaiono dal nulla 0 e 1.

Questo sotto, invece, è l’insieme degli eventi possibili per i dadi a cui siamo abituati.

Schema dei valori per una coppia di dadi numerati da uno a sei

Guardate che non è per nulla strano iniziare una numerazione partendo da zero, chiunque sia abituato a gestire matrici e vettori in linguaggi come JavaScript – quello in cui è programmata l’interfaccia utente di questo blog – per buona parte della sua giornata lavorativa ragiona proprio in questo modo.

Se questa considerazione non vi basta, ruberò un aneddoto dal blog dei Rudi Matematici:

«C’è un famoso aneddoto di su Hilbert che, alla stazione con moglie e figli, litigava con la consorte che gli aveva chiesto se avesse controllato che tutte e sei le valigie che avevano con loro fossero state caricate. “Le ho viste,” diceva la moglie alla fine, dopo un altro controllo: “ci sono tutte e sei”. Al che anche Hilbert ricontrolla, e contesta: “No! È la terza volta che le conto, ne manca una! Guarda, contiamole insieme: zero, uno, due, tre, quattro e cinque! Visto?”»

È immediato rendersi conto che, in realtà, i due schemi sono identici e che la domanda da porre dovrebbe essere la seguente: qual è la probabilità che la somma dei due numeri usciti appartenga alla diagonale i-esima con i compreso fra 1 e 11? (dove le 11 diagonali sono quelle che congiungono due numeri uguali, ad esempio 3 e 3 o 4 e 4, per usare valori presenti in entrambi gli schemi).

Se, però, girano dei soldi, porre la domanda unicamente sul risultato numerico della somma, senza fornire tutte le informazioni, potrebbe avere come effetto una bella rissa.

Ma c’è di più: nulla ci consente di stabilire a priori persino se sia possibile fare la somma numerica di ciò che compare sulle facce dei due dadi. Ad esempio sulle facce potrebbero esserci delle immagini stilizzate di fiori: chi di voi sa dirmi quanto fa numericamente rosa + tulipano?
È vero che con un minimo di conoscenza di teoria degli insiemi le cose si risolvono e il nostro gioco coi dadi può essere eseguito perfettamente, anche se non numericamente, – basta ricordarsi il concetto di prodotto cartesiano e decidere se [rosa + tulipano] = [tulipano + rosa], cioè se i due dadi hanno lo stesso colore oppure no – però non mi immagino seratine tranquille nella bisca sull’isola tropicale, se adotta metodi del genere con gli ignari turisti.

Se vogliamo calcolare la probabilità di un evento abbiamo bisogno di una descrizione precisa ed esauriente su come avviene l’evento ed a quale insieme di eventi possibili appartiene.

Però le spiegazioni esaurienti richiedono tempo, io voglio uscire con questo articolo prima del prossimo carnevale della matematica, pertanto per il simpatico protista, che tutti quanti abbiamo studiato a scuola, e per il paradosso di Bertrand, che non conoscono in molti, vi tocca aspettare la seconda parte.

Portate pazienza.

 

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Il dilemma del viaggiatore

Questo è il primo articolo serio della categoria “Ma… è matica?”.

Tanto serio che, visto che come hýbris – leggasi faccia tosta – non sono secondo a nessuno, incomincio addirittura occupandomi di razionalità umana.

L’uomo è un animale razionale e sociale. Ne siamo sicuri?
Direi di sì. E non perché – ipse dixit – lo abbia affermato Aristotele, ma molto più banalmente perché su queste mie parole stiamo raziocinando almeno in due: io che le ho scritte e tu che le leggi.
E visto che siamo almeno in due, siamo automaticamente una forma minima – temo, visto il numero dei miei lettori, davvero minima – di società.

Lo studio di questi comportamenti razionali e sociali, avviene in tanti modi, uno dei più antichi è probabilmente l’apprendimento dell’uso della clava per dirimere le controversie fra vicini di caverna, la matematica più pacificamente vi dedica la “Teoria dei giochi”.
A dispetto del suo nome giocoso è roba serissima, visto che tratta delle decisioni che è razionale prendere in situazioni quali le guerre e le attività economiche. Decisioni razionalmente prese che ogni tanto ci fanno venir voglia di dire: roba da matti.
Per fortuna ci sono anche coloro che razionalmente si chiedono se sia davvero razionale decidere affidandosi sempre ed esclusivamente alla ragione.

Kaushik Basu è un serissimo economista indiano, sino a poco tempo fa Chairman of the Department of Economics and Director, Center for Analytic Economics at Cornell University, nel 1994 ha proposto un esperimento concettuale detto “Traveler’s dilemma”, “Dilemma del viaggiatore” in italiano.
Ve lo offro nella versione da lui stesso pubblicata nel numero di giugno 2007 di Scientific American, secondo la traduzione del numero di agosto 2007 di Le Scienze, scusandomi con autore ed editore per la piccola violazione del copyright:

«Lucia e Piero, di ritorno da una remota isola del Pacifico, scoprono che la compagnia aerea ha danneggiato i due oggetti di antiquariato identici che avevano acquistato. Un dirigente della compagnia si dice lieto di risarcirli, ma ignora completamente il valore di quegli insoliti oggetti. Chiedere semplicemente il prezzo ai due viaggiatori è inutile, pensa, perché lo esagererebbero. Allora inventa un metodo più complesso. Chiede a ognuno dei due di scrivere il prezzo dell’oggetto, espresso come numero intero di dollari compreso tra 2 e 100, senza consultarsi con l’altro. Se entrambi scrivono lo stesso numero, presumerà che sia il vero prezzo e verserà quella cifra a ognuno dei due. Ma se scrivono numeri diversi, presumerà che il più basso sia il prezzo reale e che chi ha scritto il più alto stia mentendo. In questo caso pagherà a entrambi la cifra inferiore, ma con un bonus e una penalità: chi ha indicato il numero inferiore riceverà 2 dollari in più come ricompensa per la sua onestà, mentre quello che ha indicato il maggiore riceverà 2 dollari in meno come penalità. Per esempio, se Lucia scrive 46 e Piero scrive 100, Lucia riceverà 48 dollari e Piero 44. Che numeri scriveranno Lucia e Piero? E voi, che numero scrivereste?»

Visto che sono maschio, assumo il ruolo di Piero e vi comunico che io sono onestissimo, tot dollari ho pagato l’oggetto e tot dollari chiedo per il danno.
Onestissimo sì, ma mica fesso: in fin dei conti mi hanno distrutto un caro ricordo, mi stanno facendo perdere del tempo per ottenere un risarcimento, allora tanto vale che mi paghino 100 dollari belli tondi e se Lucia è furba ne chiederà 100 anche lei.
Furbizia? Se lei chiede 100 e io, invece, ne chiedo 99 allora io riceverò 101 dollari e lei solo 97, tiè: il più furbo sono io. Sì, ma anche Lucia non sarà mica stupida – non la conosco ma siamo animali razionali, ahó – farà lo stesso mio ragionamento, chiederà 98 per ottenerne 100 e io ne prenderò solo 96: va bene, calerò le pretese e mi limiterò a 97 per ottenerne 99; sì, ma anche lei ragionerà nello stesso modo e allora…

Traveler's dilemma - L'analisi discendenteDi ragionamento in ragionamento, di allora… in allora…, sia Lucia sia Piero si rendono conto entrambi che l’unica richiesta che consente loro di ottenere un risarcimento purchessia è abbassare le proprie pretese sino alla soglia minima di 2 dollari: chiedere un qualsiasi importo maggiore li espone al rischio – alla certezza, se l’altro è gelidamente razionale – di non ricevere nulla. Se uno dei due è avido, l’altro riceve 2 dollari più 2 di premio “onestà” uguale 4 dollari, mentre il goloso non ottiene nulla: 2 − 2 = 0.
Se ci si accontenta di 2 dollari si è sicuri di ottenere qualcosa: piuttosto che niente è meglio piuttosto.

Se già avete affrontato il problema o se siete esperti di Teoria dei giochi – e in questo caso il problema lo conoscete perfettamente – sapete che questa è la soluzione – l’unica soluzione – matematicamente corretta.
Per gli altri ribadisco che – matematicamente – non ci sono contorsionismi intellettuali  che tengano: l’unico modo per essere certi di ricevere un indennizzo, anche se inadeguato al danno effettivamente subito, è chiedere la cifra minima. Parlo di certezza, perché nulla impedisce di chiedere una cifra superiore, sapendo che si corre il rischio di non ricevere nulla se anche l’altro è l’essere gelidamente razionale che, in simili circostanze, ognuno di noi presume di essere: rischio che, dati i presupposti, coincide con la certezza.

FINE DELLA STORIA

Fine della storia un corno! Non scriverei questo articolo e non sarebbero tanti anni che ci si dibatte intorno se la storia finisse qui.

Non vi tedierò parlandovi degli equilibri di Nash o del “Dilemma del prigioniero”, che è strettamente imparentato con quello del viaggiatore di cui stiamo discutendo: non mi interessa scrivere un trattato di matematica su argomenti su cui altri – molto più competenti di me – hanno già “detto tutto” e poi al fondo metterò un bel po’ di link.
Ciò che mi interessa è analizzare razionalmente i motivi per cui quasi tutti trovano istintivamente “stupido” comportarsi in modo perfettamente razionale se dovessero trovarsi nella situazione di Piero o Lucia. Ovviamente sono l’ultimo – sia in senso cronologico, sia per “autorità intellettuale” – a pormi questo obiettivo, ha incominciato Basu proponendo il dilemma e altri hanno successivamente compiuto dotte ricerche sia teoriche sia sperimentali sull’argomento, ma forse qualcosina riesco a tirar fuori.

La prima e fondamentale considerazione che mi viene in mente è che quando ci viene posto un problema del genere ci viene implicitamente chiesto di identificarci con uno degli attori in gioco. Attore perfettamente razionale sin che si vuole ma, comunque, fornito di una propria cultura, di proprie abitudini nell’interazione con gli altri; attore al quale, in mancanza di particolari specificazioni in contrario, ci viene naturale attribuire la nostra cultura e le abitudini nostre e di coloro che ci circondano e che siamo abituati a frequentare.

Lo scenario proposto suggerisce di pensare a se stessi come a una persona che ha realmente subito un danno.

È vero che lo scenario non dice quanto sia stato pagato effettivamente l’oggetto, ma io, nel momento in cui assumo il ruolo di Piero, impersono qualcuno che sa perfettamente quanto ha speso per la propria antichità e che sa anche se ha ottenuto – contrattando più o meno accanitamente – un ribasso sul prezzo richiesto inizialmente, qualcuno che può anche escludere che il detto “quattrini e scervellati presto separati” sia stato scritto per lui, altrimenti non sarebbe una persona da supporre razionale.

Fin dal codice di Hammurabi, il cui articolo 55 tratta dell’allagamento colposo dei campi del vicino, è nozione comune che chi causa un danno per incuria deve rimborsare il danneggiato (è decisamente più razionale che prendersi a colpi di zappa in riva al fosso esondato): pertanto devo aspettarmi che la compagnia aerea che ha rotto l’oggetto me lo ripaghi e, possibilmente, aggiunga qualcosa per compensare il dispiacere subito ed il tempo perso per presentare il reclamo.

Allora: come posso decidere la cifra da chiedere come risarcimento?

Io, Piero, mi trovo immediatamente esposto alla tentazione di chiedere il massimo o, comunque, una cifra superiore a quanto effettivamente pagato: in fin dei conti mi aspetto anche un minimo di “risarcimento morale” e il rappresentante della linea aerea si è implicitamente affidato alla nostra “correttezza” nella richiesta, ma non ha esplicitamente escluso i danni morali dall’importo. (O, perlomeno, questa è l’interpretazione dello scenario che la cultura e le abitudini di Martino Benzi, che si immedesima in Piero, che deve interagire in una situazione inusuale con due sconosciuti, producono.)
Io, Piero potrei anche pormi il problema di non esagerare con la mia richiesta, magari per non fare la figura del fesso che ha pagato 80 dollari – perché così dichiara – ciò che Lucia potrebbe dichiarare di aver pagato 50.
Quest’analisi, molto grossolana e probabilmente fulminea,  (che  prego il lettore di non confondere con l’analisi deduttiva rigorosa esposta sopra) mi porta subito a ricordarmi che l’importo che ho effettivamente pagato rappresenta comunque la cifra minima che devo chiedere, se voglio poter sperare di essere rimborsato adeguatamente (poiché Piero non sta eseguendo l’analisi rigorosa, in questo istante non si preoccupa del premio o punizione di 2 dollari, ci penserà fra un attimo).
Non è un problema di onestà nei confronti della linea aerea, ma la semplice speranza di non ricevere troppo poco per aver chiesto troppo poco.

Poiché Lucia è razionale quanto me, anche lei potrà vedere il vantaggio di scrivere il proprio prezzo di acquisto, perché in questa situazione colui che sin dall’inizio ha spuntato il prezzo migliore conserva il vantaggio iniziale e riceve un supplemento per il disturbo: Caveat emptor! (in italiano si traduce con “legge del Menga”).

In questo caso il mio indennizzo potrà essere:

  1. Quanto ho pagato l’oggetto più 2 dollari se la mia richiesta è la più bassa;
  2. Esattamente quanto ho pagato l’oggetto se la richiesta di Lucia coincide con la mia;
  3. Quanto ha pagato Lucia meno 2 dollari, se lei ha speso meno di me per l’acquisto e dovrò rassegnarmi alla perdita di 2 dollari, rispetto al miglior prezzo a cui era acquistabile l’oggetto, come ulteriore punizione per la mia minor abilità a fare affari rispetto a Lucia.

È però immediatamente evidente che io posso chiedere qualsiasi importo desideri sino ai famigerati 100 dollari, perché, alla peggio, otterrò 2 dollari meno di quanto richiesto – e, nella supposizione della comune adesione a questo schema logico, pagato – da Lucia e posso persino sperare, se risultasse che ho pagato l’oggetto meno di lei, di ricevere un indennizzo superiore alla richiesta “onesta”.
Poiché Lucia seguirà lo stesso processo razionale potrà chiedere anche lei 100 dollari senza problemi e saremo entrambi felici e contenti.

Queste considerazioni, però, devono contemplare la piccola, ma non nulla, possibilità che Lucia abbia effettivamente pagato 2 dollari – o persino meno – la sua antichità e che alla fin dei conti io mi ritrovi a ricevere 0 (zero) dollari come risarcimento.
Notate bene che, in questo punto dello studio del problema, io, Piero, non sto ipotizzando che Lucia richieda 2 dollari in seguito all’analisi discendente portata sino in fondo, ma che per lei l’oggetto abbia realmente un prezzo storico di acquisto di 2 dollari o meno.
Poiché Lucia – razionale quanto me – farà lo stesso ragionamento al mio riguardo, sono costretto a ritenere la richiesta di 2 dollari come l’unica razionalmente sicura: la matematica colpisce ancora.

In realtà ci sono eccellenti ragioni “giuridiche” che giustificano questa situazione: fin dai tempi di Hammurabi chi presenta una richiesta di risarcimento danni deve portare le prove del danno subito, prove che in questo caso non ci sono assolutamente, non vi è alcuna fattura comprovante l’importo pagato, le mie possibilità di vincere una causa giudiziaria non valgono nulla, quindi poco è meglio di niente, come disse l’avvocato al cliente innocente che era stato condannato all’impiccagione invece che al rogo.

Le due ovvie obiezioni che 2 dollari non sono un indennizzo adeguato o che non valgono il tempo necessario per chiedere il risarcimento, sono immediatamente superate se tengo conto che, quando ho chiesto il rimborso, non sapevo che mi sarebbe stato concesso in questa forma e potevo aspettarmi di ottenere un indennizzo accettabile, semplicemente mostrando i cocci dell’antichità e minacciando di non usare più la stessa linea aerea, ma ora sono in acqua e mi tocca nuotare, anzi a prima vista poteva sembrare perfino una proposta generosa.
Quando sono arrivato in fondo ai calcoli e mi sono reso conto che l’unica richiesta logica è 2 dollari, ormai ho già perso il mio tempo e, come sempre, 2 è meglio di 0.
È dura da digerire ma è così: 2 dollari è l’unica scelta possibile per un essere razionale!

E allora perché pochissimi sono disposti a scendere a 2 dollari quando gli si pone il problema?

Ciò può essere comprensibile per il/la turista di Voghera – umanamente capace della, ma non abituato/a alla gelida razionalità –, ma perché si comportano in questo modo anche i competenti della materia?
Rubo di nuovo, con tante scuse a lui e all’editore, le parole a Kaushik Basu:

«Questa spiegazione (quella di mancanza di abitudine alla razionalità – NdMB) può essere vera in qualche caso, ma non spiega risultati come quelli ottenuti nel 2002 da Tilman Becker, Michael Carter e Jórg Naeve, all’epoca all’Università di Hohenheim in Germania. Nel loro esperimento, 51 membri della Società di teoria dei giochi, quasi tutti esperti della materia (secondo me, tutti quanti si erano già abbondantemente scraniati sul problema – NdMB), giocarono alla versione originale (da 2 a 100) del dilemma del viaggiatore.
Giocarono contro ognuno dei 50 avversari scegliendo una strategia e inviandola ai ricercatori. La strategia poteva essere un singolo numero da usare in ogni partita o un insieme di numeri e l’indicazione della frequenza con cui usare ognuno di essi. Il gioco aveva un sistema di compensi in denaro reale: gli sperimentatori scelsero un giocatore a caso che avrebbe vinto 20 dollari moltiplicati per la vincita media di quel giocatore nel corso del gioco. Il vincitore guadagnò 1700 dollari, grazie alla sua vincita media di 85 dollari.
Sui 51 giocatori, 45 scelsero un unico numero da usare in ogni partita (gli altri sei ne specificarono più di uno). Di quei 45 solo tre scelsero l’equilibrio di Nash (2), 10 scelsero la strategia dominata (100) e 23 scelsero numeri compresi tra 95 e 99. Presumibilmente gli esperti di teoria dei giochi sanno come ragionare deduttivamente, ma persino loro, in complesso, non seguirono la scelta razionale dettata dalla teoria formale.»

Ecco la mia azzardatissima spiegazione.

Non siamo poi così razionali. O, forse, sarebbe meglio dire che non siamo sempre così razionali e quando ci identifichiamo con l’attore di un problema del genere siamo ferocemente condizionati dalla nostra cultura, esperienza, abitudini e “uso di mondo”, persino quando partecipiamo ad un gioco come quello di Hohenheim in cui tutti i concorrenti dovrebbero essere dei mostri di razionalità, a partire da noi stessi.
Visto che a suo tempo ho comprato (10 dollari bene investiti) l’articolo di Basu, leggete come lui ha esposto lo scenario del dilemma nella versione originale del 1994:

«Two travelers returning home from a remote island, where they bought identical antiques (or, rather, what the local tribal chief, while choking on suppressed laughter, described as “antiques”), discover that the airline has managed to smash these, as airlines generally do.
…»

«Due viaggiatori al loro ritorno a casa da un’isola lontana, dove hanno comperato due identiche antichità (o, piuttosto, ciò che il locale capo tribù, quasi soffocando mentre cercava di non ridere, aveva descritto come “antichità”), scoprono che la linea aerea si era data da fare per fracassarle, come solitamente fanno le linee aeree.
…»

Orbene, vi sembra così razionale il comportamento dei due viaggiatori?

Pagare dollari buoni per una siffatta “antichità”?
È evidente che nella mia trattativa con il capo io non stavo acquistando “un oggetto” ma qualcosa di diverso, magari la possibilità di partecipare ad una festa con abbondanza di vino di palma o qualcosa di analogo, ma non un bene materiale.

Metterla in valigia senza avvolgerla accuratamente in un soffice ma robusto involucro di foglie di palma protettivo?
Dovrei pur sapere che gli oggetti fragili messi in valigia si rompono regolarmente durante il viaggio.

E, soprattutto, vi sembra razionale andarsene in vacanza in un isola lontana?
È vero che nulla ci dice che i due viaggiatori fossero al ritorno da una vacanza, ma quante persone conosciamo che vadano in isole lontane, dotate di capi tribù con la ridarella che vendono “antichità”, per motivi diversi da una piacevole vacanza?
Una persona gelidamente razionale non va in vacanza, resta in ufficio a fare affari e, se proprio ha bisogno di riposarsi, dorme nel proprio letto, che ha già pagato, senza sprecare quattrini in futili viaggi tropicali.

Se per affrontare il problema mi identifico in uno dei due attori, quasi automaticamente ritengo in partenza di non essere o, meglio, di poter non essere perfettamente razionale in ogni mia azione. E se non lo sono io, allora non lo è nemmeno l’altro, che ha comperato la stessa identica ciaraffola, senza curarsi di proteggerla adeguatamente, proprio come me.

Cento dollari, cara la mia linea aerea, io voglio i miei cento dollari e subito!

 Traveler's dilemma - L'isola felice

Possiamo, però, dare un’interpretazione alternativa dello stesso scenario.

Piero e Lucia sono due agenti commerciali, che non si conoscono fra di loro perché appena assunti, di una ditta che traffica in pietre preziose; essi vengono inviati in missione in due remote isole tropicali dello stesso arcipelago, dove sembra sia possibile acquistare rarissime perle nere naturali, introvabili da molti decenni.
Sono due affaristi senza scrupoli, avidi e calcolatori, con un pelo sullo stomaco che terrebbe al caldo uno yeti e delle zanne da fare invidia agli squali tigre che infestano la laguna; ognuno dei due scopre “inaspettatamente” che, per poter fare affari con i pescatori di perle, deve prima acquistare una “preziosa” antichità dal locale capo tribù, acquisto che esegue in contanti e senza alcuna documentazione di spesa – ’ccànisciun’èfess hanno detto i due capi, nella musicale lingua comune alle due isole – dopo di che gli affari proseguono a meraviglia.
Al loro contemporaneo ritorno in sede, il loro CEO, entusiasta dei fantastici acquisti fatti ad un ottimo prezzo, decide di premiarli rimborsando loro quel costo, inatteso e documentato solo dalle due statuette, perfettamente integre, che staranno così bene in vetrina assieme alle preziosissime perle nere, facilitandone la vendita a prezzi esorbitanti.
Chiede a ognuno dei due di scrivere il prezzo dell’oggetto, espresso come numero intero di dollari compreso tra 200 e 10’000, eccetera, eccetera.
Cosa scriveranno sui loro foglietti Piero e Lucia?

Eccovi i link promessi:

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