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Ich habe einen Kameraden

Indice delle puntate precedenti di Sul retro del Teatro Massimo di Palermo

Il maresciallo Capone, quello che stava agli archivi e che passava sottobanco le informazioni riservate a Pellegrino, aveva piantato una craniata micidiale nello stipite della porta, roba da farsi due o tre giorni a casa per infermità contratta in servizio, eppure non aveva perso il buon umore e nemmeno quel sorriso leggermente ebete che aveva stampato in faccia. Sorriso che assomigliava moltissimo a quello che andava a spasso sui volti dei suoi commilitoni di ogni grado che cercavano tutte le scuse possibili per entrare nella sala d’aspetto del comando e guardare la ragazza.

Era arrivata mezz’ora prima ed aveva chiesto al piantone di essere ricevuta dal capitano Catania: potete immaginarvi con quanto dispiacere le avevano comunicato che il Signor Capitano era fuori stanza per ragioni di servizio, che sarebbe tornato più tardi e che, se lo desiderava, poteva attenderlo in sala d’aspetto e poi, se gradiva qualcosa: un caffè, una bibita fresca, una granita siciliana della rinomata gelateria lì vicino o magari che un gruppo di militari dell’arma desse una prova di forza ed ardimento, formando una piramide umana come usava nelle fotografie di reggimento del XIX secolo, non aveva che da chiedere. Beh, quest’ultima offerta non venne fatta a Fräulein Freia Morgenstern, ma era sottintesa.

Anche il gruppetto di carabinieri che parlava accettabilmente tedesco non si era soffermato sui sottili risvolti glottologici di quel nome und cognome, stampati sul biglietto di visita che era stato consegnato al piantone, sebbene i due vocaboli fossero perfettamente adeguati all’aspetto della donna. Donna perché, insomma, ragazza non lo era più, soprattutto non ne aveva il piglio: si erano limitati a guardarla cercando di non tenere la bocca spalancata come degli idioti.

L’arrivo di Catania ruppe numerosi panieri pieni di uova, in compenso salvò la vita sentimentale di un paio dei suoi sottoposti che stavano seriamente valutando l’opportunità di mollare le rispettive fidanzate per andarsi a cercare una femmina come quella, sempre che ce ne fosse un’altra su questo pianeta.

«Freia, what a surprise. What are you doing in Palermo…» Iniziò Catania, con un sorriso che finiva dove incominciavamo le orecchie.

«Parliamo pure italiano, Alberto, tanto devo fare esercizio, mi fermerò uno poco da queste parti».

«Vieni nel mio ufficio, così possiamo parlare tranquillamente… Posso offrirti qualcosa? Un caffè magari?».

«Sì, da te lo accetto volentieri, perché me ne hanno già offerti uno paio di dozzine i tuoi uomini, ma dimmi, sono tutti siciliani?».

«Una metà sì, ma gli altri vengono da tutta l’Italia, ce n’è persino uno di Bolzano. Non mi dire che quei disgraziati sono venuti tutti a ronzarti intorno…» A Catania stavano cominciando ad uscire fumo e fiamme dalle narici.

«Dai, Alberto, non mi fare il siciliano geloso. Sono stati gentilissimi, mi hanno solo guardata un pochino, ma con molta discrezione. È capitato di peggio laggiù, mi pare».

«Laggiù ad uno che ti stava addosso ho anche sparato, mi pare».

«Quello non voleva guardare e poi gli hai fatto solo paura, e comunque ci voleva quello trattamento per mettere le cose in chiaro».

Il capitano non fece in tempo a chiedere all’interfono due caffè, che il carabiniere scelto Lo Russo entrò con un vassoio ricoperto da una tovaglietta di lino, con sopra perfettamente disposti: due tazzine di caffè – tazzine di porcellana, non i soliti bicchierini di plastica – due bicchieri delle grandi occasioni, tovagliolini di carta accuratamente piegati a triangolo, due bottigliette di acqua minerale – fredda e a temperatura ambiente – e un piattino traboccante di dolcetti di mandorle,  portati quella mattina da Pellegrino per festeggiare una bella notizia di cui vi racconterò dopo, e che, essendo opera di Zia Concetta, valevano la pena di venire apposta dalla Germania per essere mangiati.

Catania non sapeva se incazzarsi con quei guardoni arrapati che si facevano i fatti suoi, o essere contento del trattamento riservato alla sua ospite, poi si ricordò qual era la provenienza dei dolci e decise di essere contento: non avrebbe fatto brutta figura.

«Ti portano tutta questa roba quando chiedi un caffè a Palermo?».

«No, è un omaggio mediterraneo riservato alle signore che ne valgono la pena, anche perché, se ti fossi messa questi pantaloni, laggiù non sarebbe bastata una raffica in aria per tenerli tranquilli».

«Ero un po’ meno elegante, vero? Però questo mi fa ben sperare per il mio lavoro qui a Palermo».

«Stavi benissimo.» Ricordò con entusiasmo Catania, poi fece mente locale alle ultime parole. «Lavoro? pensavo fossi qui in vacanza, cosa c’entra il lavoro?».

«Non quello lavoro: ho cambiato. Non hai letto mio biglietto di visita, no?».

«Ho letto solo il tuo nome e non ho guardato il resto… Ti sei messa a fare la giornalista per Der Spiegel, adesso?».

«Era arrivata ora di cambiare, stava diventando routine, devo fare uno servizio su Sicilia e volevo chiederti qualche consiglio».

«E io che speravo che fossi venuta per me…».

«Anche per te, natürlich, dovevo scegliere fra Paris e Sicilia, e sono qui, vuol dire qualcosa, mi pare».

Fräulein Morgenstern non voleva fare il solito servizio pizzamaffiamandolino, non che al suo pubblico interessasse qualcosa di diverso, ma lei aveva le migliori intenzioni di documentarsi, studiare il terreno, fare un piano operativo e tornare ad Amburgo con materiale rigoroso ed aggiornato.

Alberto Catania tirò un sospiro di sollievo: gli era tornata in mente la famigerata copertina di Der Spiegel del ’77 con gli spaghetti al sugo di pistola, nonché altre gentilezze che il settimanale di Amburgo aveva riservato alle forze dell’ordine italiane. Già così non sarebbe stato un servizio facile, ma conoscendo Freia sapeva che non sarebbe andata in giro a pestare piedi inutilmente: non avrebbe di certo rinunciato a pestare piedi, ma non sarebbe stato inutilmente.

La giornalista – freelance, per il momento, natürlich – era interessata alle procedure operative di polizia e carabinieri, dei cui risultati stavano cominciando ad accorgersi anche nelle brumose terre del Nord: quello era il posto giusto per trovare le necessarie informazioni ed i giusti appoggi. Con teutonica precisione aveva un regolare accredito da giornalista e le formali lettere di richiesta di assistenza da parte della redazione, nelle quali non dico che si scusassero per il passato – nein – ma facevano sperare di volersi comportare bene in futuro. Catania avrebbe fatto qualsiasi cosa per quella donna, ne aveva i suoi buoni motivi, ma quel tipo di decisioni erano di competenza del colonnello, quindi alzò il telefono e chiese di potergli presentare un’ospite inattesa. Il vecchio soldato rimase un attimo sorpreso vedendo entrare in ufficio l’amica di Catania, poi ripensò al curriculum militare del sottoposto e in un ottimo tedesco, frutto dei tre anni passati all’ambasciata italiana in Germania, diede tutti i permessi necessari, promise tutto l’aiuto possibile anche per i rapporti con la questura e quando venne lasciato solo, rimpianse di non avere parecchi anni di meno.

A questo punto Catania poteva portare al ristorante la sua ospite, la collaborazione promessa dall’Arma rendeva la cosa affare di servizio, e dopo pranzo poteva cercare una soluzione ai problemi operativi e logistici di quel reportage giornalistico così delicato.

 

La soluzione, scommettereste forse il contrario, furono il brigadiere Pautasso e l’appuntato Pellegrino.

A parte la fiducia nel cervello dei suoi Bibì & Bibò, alias Watson & Holmes, sapeva che la loro situazione sentimentale era sufficientemente stabile da non correre il rischio che si lasciassero distrarre troppo dalla giornalista tedesca: Secondo si era finalmente deciso a fissare la data delle nozze con Maria e Cataldo aveva appena saputo di aspettare un secondo figlio – ecco spiegato il motivo dei quattro enormi vassoi di dolcetti di mandorle preparati da Zia Concetta – quei due erano i più adatti per evitare problemi.

Quei due furono convocati nell’ufficio del capitano al ritorno del loro servizio di pattuglia e ricevettero le indispensabili e sintetiche istruzioni: Fräulein Morgenstern era una giornalista tedesca incaricata di un importante reportage sull’operato delle forze dell’ordine nelle attività di contrasto alla criminalità organizzata siciliana. Per ordine superiore doveva ricevere l’assistenza necessaria al suo lavoro, quindi sarebbe stata trattata come una reporter embedded nelle operazioni di indagine ed, eventualmente, di intervento del comando e sarebbe stata temporaneamente aggregata alle loro attività di servizio: dal giorno successivo la giornalista li avrebbe accompagnati ovunque come se fosse stata una collega. Non ci fu bisogno di specificare che alla donna non sarebbero dovuto capitare incidenti, a parte l’onore in gioco dell’Arma Benemerita, gli occhi di Catania erano sufficientemente eloquenti; disse anche a Pellegrino che Fräulein Morgenstern aveva molto apprezzato i dolcetti di Zia Concetta e, poiché quel fatto costituiva quasi un’adozione nella vasta tribù dell’appuntato, i due carabinieri presero l’incarico come un fatto personale.

Fräulein Morgenstern venne fatta entrare nell’ufficio e furono fatte le presentazioni ufficiali; i due amici poterono ammirare per la prima volta, erano di pattuglia quella mattina, la donna che aveva sconvolto la “tranquilla” vita del comando e cominciarono a preoccuparsi su cosa avrebbero detto le rispettive consorti, loro sì che erano delle siciliane gelose.

Il mattino dopo i tre cominciarono i soliti giri di pattuglia ed eseguirono un paio di interventi richiesti dal comando, niente di particolarmente serio, e furono sorpresi da quanto la giornalista non fosse di disturbo per il loro lavoro, anzi, mentre aspettavano l’ambulanza, riuscì a tranquillizzare e consolare incredibilmente in fretta una donna che era stata derubata e malmenata da uno scippatore insolitamente brutale. Mancava meno di un’ora alla fine del turno quando dal comando venne l’ordine di recarsi in località Case Vecchie, dove erano state segnalate attività sospette in un rustico abbandonato.

Prima di partire indossarono i giubbotti antiproiettile, ce n’era uno anche per la tedesca, dovevano o non dovevano trattarla come una collega?

Il rustico era una vecchia costruzione ad un piano di non più di un paio di stanze, ancora in decenti condizioni; fecero  un giro tutto intorno e diedero uno sguardo attraverso i vetri lerci delle finestre senza rilevare niente di sospetto, poi quei due si lasciarono cogliere dalla tentazione di fare i rudi poliziotti e di irrompere nella casa, passando per la porta che sembrava solo accostata.

Armi in pugno prepararono l’irruzione: Pautasso si piazzò a sinistra della porta, Fräulein Morgenstern a destra – lei senza armi naturalmente – e Pellegrino prese lo slancio per spalancare l’uscio con un calcio.

«No!» Gridò Pautasso.

«Halt!» Gridò la giornalista.

Pellegrino incredibilmente riuscì a fermarsi e a posare a terra il piede senza urtare la porta.

«Vado alla radio a chiamare gli artificieri.» Disse, pallido come un morto, l’appuntato.

 

Il maresciallo maggiore Rosolino aveva fatto tanta di quella pratica nei Balcani ed in Iraq che ci mise meno di cinque minuti a disinnescare la bomba e solo altri dieci a bonificare con calma tutta la casa e a tagliare i fili trappola attaccati alle finestre della bicocca.

«Vi hanno promosso di recente, ragazzi? Quindici chili di tritolo e tre bombole di gas da venticinque chili l’una solo per voi mi sembrano eccessivi».

Il capitano Catania era livido. Dal punto di vista strettamente tecnico l’operazione era stata un completo successo: non erano caduti nell’agguato, tutto il materiale esplosivo era stato recuperato ed era disponibile per gli accertamenti del caso, potevano persino tenere la cosa ragionevolmente sotto silenzio perché non c’erano giornalisti fra i piedi, tranne Freia naturalmente, ma lei non avrebbe aperto bocca. Il problema era un altro ed era quello che si stavano domandando Pautasso e Pellegrino: chi aveva appena cercato di far fuori la giornalista tedesca e perché?

Sul perché Catania non aveva molti dubbi: qualcuno voleva che Der Spiegel pubblicasse una bella copertina con un piatto di spaghetti al sugo di bomba. Il chi, adesso, non aveva molta importanza: troppi potevano avere interesse a scatenare il diluvio di indagini che sarebbe seguito a quelle tre morti, anche se difficilmente poteva trattarsi di gente della zona, era più probabile che l’idea fosse venuta a qualcuno di fuori, per fare un dispetto a quelli del posto. La domanda che dovevano porsi era: come avevano fatto ad individuare la giornalista, sapere come avrebbe preparato il suo servizio, preparare l’attentato e il tutto in poco più di ventiquattr’ore. Chi aveva parlato?

Pautasso e Pellegrino avevano un’altra domanda che gli girava in testa: come diavolo aveva fatto la donna a capire che la casa era minata? Che ci fosse riuscito Pautasso non era una novità, con tutta l’esperienza fatta in Kosovo; anche Pellegrino mentre stava per tirare il calcione sentiva una vocina che gli diceva: “non farlo, non farlo” e forse sarebbe riuscito a fermarsi da solo; ma lei?

 

Il colonnello era infuriato e la cosa che lo imbestialiva di più era il non sapere con chi infuriarsi. Non poteva di certo prendersela con Catania, e nemmeno con Pautasso e Pellegrino, che anzi avrebbe proposto per un encomio, con la giornalista meno che meno anche se era indubbiamente l’origine di tutto. Fu lieto di apprendere che Fräulein Morgenstern, dopo la sua telefonata di preavviso, era andata immediatamente a presentare le proprie credenziali al questore: per il momento poteva far finta di credere che la talpa si trovasse nella polizia e non fra i suoi uomini, però…

Freia Morgenstern, insistette affinché le cose non cambiassero, lei non aveva di certo paura e si fidava dei due carabinieri a cui l’avevano aggregata, dei quali aveva potuto apprezzare la correttezza e la preparazione professionale. Ciò non sarebbe bastato né al colonnello né a Catania, che aveva anche preoccupazioni più personali; quello che convinse i due ufficiali fu l’ovvia constatazione fatta dalla giornalista che non avrebbe potuto scrivere il suo servizio come intendeva, se avesse dovuto cambiar metodo di lavoro e, soprattutto, che solo correndo il rischio di altri attentati potevano sperare di concludere rapidamente quell’indagine.

I due giorni successivi furono di assoluta routine, movimentata solo da una rissa fra spacciatori extracomunitari vicino alla stazione, finita con un morto accoltellato e due arresti, niente che non fosse abituale anche ad Amburgo.

 

Il pomeriggio del terzo giorno arrivò al comando una confidenza interessante da parte di una delle solite voci bene informate, voci che a volte risultano persino attendibili. Quella notte, in una masseria isolata nelle campagne, era possibile intercettare un passaggio di droga da un grossista ai suoi distributori locali, l’operazione giusta da mostrare alla stampa straniera. Potete immaginarvi quali e quante precauzioni vennero prese per ridurre al minimo i rischi: non bastarono.

Il previsto arresto in flagranza di reato si trasformò immediatamente in un conflitto a fuoco che sembrava una battaglia, mancavano solo il napalm e il tiro dei mortai a fare la differenza.

Pautasso e Pellegrino avevano ovviamente il compito di tenere al sicuro la giornalista e ce la misero tutta. Ci stavano perfino riuscendo quando la donna ordinò: «Possiamo aggirare la loro posizione, seguitemi. Schnell!», dopo di che sparì al passo del leopardo fra i fichidindia che circondavano la masseria, lasciando ai due carabinieri solo la possibilità di andarle dietro, con tutte le precauzioni previste dall’addestramento per il movimento sotto il fuoco nemico ed il terrore che a quella pazza capitasse qualcosa.

Capitò che finirono per tagliare la ritirata alle forze nemiche che ripiegavano ordinatamente, pardon, finirono in mezzo ai criminali che cercavano di scappare dal retro, armati fino ai denti e ben decisi a non lasciarsi arrestare.

Quando Catania riuscì a raggiungerli la situazione era la seguente: Freia stava mettendo un laccio emostatico di emergenza a Pautasso che aveva una ferita al braccio sinistro, Pellegrino non aveva più nemmeno la forza di bestemmiare a causa dei tre colpi di Kalashnikov che erano stati fermati dal giubbotto antiproiettile ma gli avevano rotto un paio di costole. E i mafiosi? Prima di tutto non facciamo confusione: tranne uno si trattava di calabresi, quindi il termine mafiosi è improprio, buono appena appena per i lettori tedeschi che fanno di tutte le erbe un fascio; comunque tre di loro erano stati gravemente feriti dall’unica raffica sparata da Pellegrino prima di venir messo fuori combattimento, gli altri due stavano vomitando anche i cabasisi – in altra lingua hoden – a causa dei terribili calci nei medesimi che aveva rifilato loro l’Hauptmann Freia Morgenstern, pluridecorato ufficiale in congedo dei paracadutisti della Repubblica Federale di Germania. Non chiedetemi, per favore, in quale occasione della loro comune permanenza in Afghanistan Freia ed Alberto si fossero scambiati la traduzione di simili dettagli anatomici: sono fatti loro e non intendo immischiarmene.

 

Naturalmente fu subito evidente che anche il supposto traffico di droga era una trappola per eliminare la giornalista, di stupefacenti infatti non venne trovata traccia, mentre era chiaro che i cinque si erano appostati per prendere sotto il tiro incrociato dei kalashnikov i carabinieri che arrivavano.

Dopo un po’ di indagini fatte dai carabinieri di Palermo e di Reggio Calabria con la collaborazione della polizia tedesca, risultò che si trattava proprio di un dispetto che una cosca della Locride voleva fare a dei concorrenti palermitani e che tutta l’idea era partita da Amburgo: da uno di quella cosca che aveva la donna che lavorava come segretaria nella redazione di Der Spiegel. La poveretta, che non sospettava niente, aveva raccontato al moroso italiano che in redazione stavano preparando un servizio sui maffiosi siciliani e che lo avrebbe scritto un’ex ufficiale dei paracadutisti, aveva persino fornito fotografie di Freia e la traccia prevista per il servizio: la classica cretina innamorata di tutti i romanzi di spionaggio.

L’onorabilità delle forze dell’ordine italiane era salva, mentre quella del servizio di sicurezza del più famoso settimanale tedesco lo era un po’ meno, ma diplomaticamente la cosa non venne fatta troppo pesare.

 

Alla fine il reportage di Freia riuscì un vero successo e quando Pautasso e Pellegrino tornarono in servizio dopo le loro licenze per ferita in servizio, scoprirono che Catania era partito lui in licenza, per un giro turistico della Sicilia, e non aveva nascosto di essere in ottima compagnia.

 

Capone, che non li vedeva da qualche settimana, aveva gli ultimi pettegolezzi: linguistici questa volta.

«Ma lo sapete cosa significa Freia Morgenstern? Lo Russo lo ha chiesto alla professoressa di tedesco di sua figlia: Freia era la dea germanica dell’amore, l’equivalente di Venere per i Romani, e a anche Morgenstern vuol dire la stessa cosa perché è la stella del mattino, cioè di nuovo il pianeta Venere».

«Nein!» Risposero in coro Sherlock Holmes e il Dottor Watson, che avevano avuto tutto il tempo di documentarsi su internet durante la convalescenza. «Freia, o meglio Freyja, era la divinità vichinga della guerra, che cavalcava nella desolazione dei campi di battaglia calpestando i caduti e si divideva con Odino i cadaveri dei nemici uccisi. In quanto al morgenstern era la mazza ferrata che i cavalieri teutonici usavano sin dall’undicesimo secolo per spaccare la testa ai nemici. Hai presente quella palla di ferro piena di punte attaccata ad un manico? ecco, quella roba lì».

 

Capone li guardò un attimo e poi chiese: «Con quale delle due dee pensate preferisca trovarsi in questo momento il Capitano Catania?».

«Capone, sei un uomo di mondo. Si capisce che hai fatto il militare a Cuneo.» Concluse Pautasso.

Indice delle puntate precedenti

 

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Intrigo siculo-giapponese

Indice delle puntate precedenti di Sul retro del Teatro Massimo di Palermo

Miss Violet O’Hara era venuta al comando per formalizzare fra le lacrime la denuncia e firmare la sua deposizione.

Che fosse irlandese lo provavano il suo cognome, i suoi documenti ed una chioma di capelli rossi che avrebbe fatto invidia a quella della quasi omonima Maureen O’Hara. Aveva anche un bel viso, un po’ irregolare ma interessante; qualcuno avrebbe potuto considerarla una bella ragazza. O meglio: un paio molto abbondante di belle ragazze.

Era la donna più grossa che Pautasso e Pellegrino avessero mai visto. Non la più grassa, Pautasso ricordava una salumaia torinese che probabilmente pesava di più e anche alcune siciliane conosciute da Pellegrino in quanto a ciccia non scherzavano. Questa donna era gigantesca: quasi due metri di statura e dei muscoli spropositati che la pur abbondante adipe non riusciva a nascondere, doveva pesare almeno centosessanta chili. I due carabinieri ricordavano solo un’altra persona ancora più imponente: un capoclan kosovaro che teneva in riga la sua turbolenta tribù a suon di sberloni; il colosso doveva avere parecchi peccatucci di sangue sulla coscienza, ma era anche lo zio del bambino che i nostri eroi avevano salvato dal campo minato rischiando la pelle, si era quindi comportato con i soldati italiani della forza di pace con tutta la cortesia e la collaborazione che la gratitudine tribale imponeva.

Le misure della donna erano rese ancora più evidenti dal vestito che indossava: una specie di kimono blu elettrico decorato a peonie gialle, abbigliamento che del resto si addiceva perfettamente alla sua attività di lottatrice professionista di Sumo.

«Ma il Sumo non è uno sport solo maschile?» Chiese Pautasso che, avendo fatto un po’ di arti marziali da ragazzo, se ne intendeva abbastanza.

«Secondo la tradizione giapponese, sì,» rispose l’uomo che traduceva le parole della gigantessa e che si era qualificato come il suo impresario, «ma da quando questo sport ha cominciato a diffondersi nel resto del mondo, ne esiste anche una versione femminile con tornei e campionati. Ho portato la squadra a Palermo per far conoscere ai miei concittadini questa nobile e antichissima arte marziale e…».

«Scusi, cosa intende per squadra?» Intervenne Pellegrino.

«Temo di non essermi presentato adeguatamente,» riprese l’uomo, tirando fuori dal portafoglio un biglietto di visita coloratissimo, «mi chiamo Lombardo Gasparo e sono il presidente e amministratore della Sumo Stars, società di arti marziali professionali, che ho portato a Palermo per uno spettacolo dimostrativo, avrei dovuto essere più chiaro ma la brutale e vergognosa aggressione subita da Violet mi ha sconvolto…».

 

Pautasso e Pellegrino riuscirono a trattenere un sogghigno: alla faccia della brutale e vergognosa aggressione. Ecco come gli eventi erano stati narrati dagli spettatori, i quali si erano tanto divertiti da rinunciare alla tradizionale reticenza sicula ed avevano raccontato tutto con dovizia di particolari.

Due balordi su di una moto di grossa cilindrata – ovviamente poi risultata rubata – avevano cercato di scippare in mezzo alla folla quella turista dai capelli rossi, grossa come una montagna e vestita come un negozio di fioraio; la gigantessa aveva fatto resistenza e tenuto ben stretta la borsa, con il risultato che i due ladruncoli erano stati letteralmente sfilati via da sopra la moto. Moto che aveva proseguito la sua corsa da sola, andando a sfondare la vetrina di un negozio di casalinghi sull’altro lato della strada e facendo uno sfracello di piatti e bicchieri, fra le urla dell’avarissima proprietaria, donna antipaticissima ed esosa che stava notoriamente sulle corna al resto degli abitanti del rione.
Già questo sarebbe stato un bello spettacolo da raccontare ai bambini una volta tornati a casa, ma il massimo dello spasso era stato provocato dal fatto che i due scervellati avevano tirato fuori i coltelli e avevano non solo minacciato la cicciona per farsi consegnare la borsetta – grossa come una valigia – ma anche tentato di accoltellarla, procurandole un paio di netti tagli nel kimono. Un vero e proprio “o la borsa o la vita” che stava per costare molto caro ai due sconsiderati che solo l’arrivo dei fratelli Branca, richiamati dal fracasso, aveva salvato dal fare una brutta fine.
Pautasso e Pellegrino erano riusciti con una certa fatica a tirar via dalle tenere manine della mancata vittima quello che aveva guidato la motocicletta. La gigantessa lo aveva acchiappato per il bavero, sollevato come un bambolotto, sbattuto contro un muro e accuratamente e ripetutamente schiaffeggiato andata e ritorno: nonostante il casco – volato via alla prima sberla – mandibola fratturata in tre punti e commozione cerebrale, avevano decretato al pronto soccorso. E l’altro? L’altro stava sotto i piedi della lottatrice che aveva scelto quel modo per tenerlo fermo: cinque o sei costole rotte e svariate lesioni interne.
Se non fosse stato chiaro che si era trattato di legittima difesa, Miss O’Hara avrebbe avuto un sacco di grane con la legge, ma così…

 

«La squadra è composta da quattro atlete,» continuò il signor Lombardo, «Violet è irlandese, due sono tedesche e la quarta è olandese, abbiamo la sede ad Amsterdam e partecipiamo a competizioni e dimostrazioni in tutto il Nord Europa. Io sono di Palermo, anche se sono emigrato in Olanda quasi vent’anni fa, e ho voluto far vedere ai miei concittadini questo nobile sport…».

«Nella borsa della signorina, c’era qualcosa di valore? denaro, documenti…» Chiese Pautasso.

«I soldi per il viaggio e i biglietti aerei per il ritorno, non mi sono fidato a lasciarli nella pensione dove siamo scesi e li ho affidati a Violet perché li custodisse lei…».

«Era una grossa somma?».

«Ma no, poco più di un migliaio di euro e abbiamo prenotato il volo andata e ritorno con Ryan Air, non faccio fatica a confessarle che le finanze della società non sono molto floride, anche se in nord Europa c’è interesse per questa nobile arte marziale gli incassi bastano appena a coprire le spese… speravo di riuscire ad organizzare qualche bell’incontro dimostrativo qui a Palermo, avevo avuto delle promesse da uno dei palazzetti dello sport qui in città, ma adesso sembra che gli impianti non siano più disponibili e sono molto preoccupato…».

 

Ma figuratevi se gli impianti non erano più disponibili: il signor Lombardo Gasparo poté scegliere con chi fare affari. Con tutta la pubblicità che c’era stata, le esibizioni di sumo femminile riempirono di pubblico per tre serate un palazzetto molto più capiente e prestigioso di quello originariamente previsto e ci fu un supplemento di due serate a Catania. Le quattro gigantesse, arbitrate da Lombardo travestito da giapponese con tanto di tradizionale ventaglio, ed abbigliate secondo le usanze di quel nobile sport – vabbè, rispetto ai colleghi maschi le ragazze indossavano una maglietta supplementare, destinata a far finta di nascondere le immense rotondità superiori – ottennero un successo strepitoso ed il loro manager non dovette di certo lamentarsi degli incassi, quando pochi giorni dopo ripartirono per l’Olanda.

 

Pautasso era andato a prendere Maria che finiva il turno in ospedale, non era orario di visite ma tutti ad Urologia Maschile ormai lo conoscevano benissimo e lo salutavano calorosamente.

Lo salutò con voce fioca anche uno dei ricoverati: «Buona sera, Brigadiere».

Il bravo piemontese ci mise qualche secondo a riconoscere nella figura dal torace rigidamente fasciato uno degli arrestati di due settimane prima.

«Ma tu non dovresti essere ricoverato nel reparto giudiziario?».

«Non avevano più posto e mi hanno dato i domiciliari qui a urologia, tanto con le costole rotte, le flebo e il catetere di qui non posso scappare, la cicciona mi ha fatto quasi scoppiare la vescica quando ci ha messo sopra i piedi».

«Bisogna dire che tu e il tuo compare ve la siete proprio cercata, ce n’hai ancora per molto?».

«Le costole fanno ancora male ma guariranno presto, però i dottori dicono che ci vorranno molte settimane prima che possa tornare a pisciare normalmente e sino ad allora mi devo tenere questo accidente di catetere. C’è un’infermiera che ha una mano delicatissima quando me lo cambia… mi hanno detto che è la tua ragazza, Brigadiere».

«È la mia fidanzata e guarda che posso essere geloso come un siciliano anche se sono piemontese…».

«Lo dicevo con rispetto, gli altri infermieri sembra che me la vogliano staccare la minchia quando… Senti, piemontese, se ti dico una cosa che non posso dirti, tu mi prometti che dopo te ne dimentichi?».

Il brigadiere Secondo Pautasso, nativo di Moncalieri,  si sentì professionalmente arrivato: quel tipo di confidenze di solito le facevano al suo amico Pellegrino per una sorta di sicula complicità, a lui non era ancora capitato da quando lo avevano trasferito a Palermo.

«Se non è cosa troppo grossa…».

«Ci ho pensato sopra per due settimane e ho capito che ci hanno fatti fessi, a me e a Vicenzo. Ci hanno dato cento euri a testa per scippare la borsetta a una cicciona vestita a fiori, doveva essere un lavoretto da niente e invece…».

«E naturalmente non puoi dirmi chi ti ha dato l’incarico».

«Ecche sono fesso per davvero? Diciamo che era uno che doveva fare un favore ad un amico che non vedeva da vent’anni, nella borsetta c’erano dei documenti che servivano all’amico, dovevamo portargliela a tutti i costi, mica ci avevano detto che dovevamo rapinare un elefante…».

 

La serata con Maria riuscì benissimo.

Il giorno dopo, durante il servizio di pattuglia, Pautasso si confidò con Pellegrino, la promessa di dimenticarsi della cosa naturalmente con lui non valeva.

L’appuntato rimase pensieroso.

«Secondo te, la cicciona lo sapeva che si trattava di una finta?».

«Una finta mica tanto, quei due hanno tirato fuori i coltelli pensando di spaventarla e a momenti si facevano ammazzare… e comunque l’hanno spaventata per davvero, ti ricordi come piangeva quando l’abbiamo interrogata al comando, se stava fingendo allora ha sbagliato mestiere, doveva fare l’attrice, roba che nemmeno Greta Garbo…».

Pellegrino ridivenne pensieroso.

«E adesso cosa facciamo?».

«Cosa vuoi che facciamo, niente facciamo. Quei due non apriranno bocca, faranno finta di niente per non mettersi in guai più grossi e patteggeranno al processo per un semplice tentativo di scippo, tanto la lottatrice e il suo manager non verranno di certo a testimoniare perché sono in Olanda e poi con il patteggiamento basta la deposizione che hanno firmato…».

«Allora ci hanno fatto fessi pure noi».

«Non è detto…».

«A cosa stai pensando?».

«Pensavo che non vorrei essere nei panni del signor Lombardo Gasparo, se la signorina Violet O’Hara ricevesse una bella lettera anonima da Palermo che la informa sul perché e percome della sua aggressione, il suo indirizzo in Olanda lo abbiamo e quattro righe in inglese riesco a scriverle anch’io…».

«Dici che in Olanda sono bravi a metterlo il catetere…».

«Useranno dei gambi di tulipano, immagino…».

Indice delle puntate precedenti

 

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5 agosto 2012 – Pax vobiscum

Indice delle puntate precedenti di Sul retro del Teatro Massimo di Palermo

Il capitano Catania ricevette sulla linea diretta la telefonata del reverendo priore dei cappuccini di ***.

Si raddrizzò di scatto sulla sedia e disse: «Comandi, Signor Generale.» Ascoltò con attenzione la cortesissima richiesta che gli venne fatta; terminò la telefonata con un: «Sempre agli ordini.» Si rilassò sulla sedia e pensò a cosa avrebbe fatto lui, il giorno in cui fosse andato in congedo.

Poi fece chiamare il brigadiere Pautasso e l’appuntato Pellegrino.

Una volta tanto i due compari avevano la coscienza pulita: non avevano ficcato il naso in indagini che non li riguardavano da almeno due settimane.

«Ho bisogno di chiedervi un favore.» Orbene, un capitano dei carabinieri, anche se è un ufficiale educato e rispettoso dei propri sottoposti come Catania, di solito, non chiede favori: se proprio è necessario, si limita ad invocare le ragioni di servizio e dà degli ordini; i due amici incominciarono a preoccuparsi.

«È una cosa personale, non di servizio. Ho bisogno che domani mattina, è domenica e non siete di servizio, vi rechiate al convento dei cappuccini di ***, ritiriate un pacchetto e lo portiate all’arcivescovado. Potete?».

Ad una richiesta così cortese non è pensabile opporre rifiuti e comunque Pautasso e Pellegrino avevano troppe cosette da farsi perdonare dal capitano, quindi dissero in coro: «Signorsì, Signor Capitano».

«Vi metterete in borghese e vi mescolerete ai turisti in gita; sarebbe meglio se portaste con voi la tua fidanzata, Pautasso, e tua moglie, Pellegrino, aiuterebbe a non dare nell’occhio. Pensate possano venire e sappiano tenere riservata la cosa?».

«Maria sicuramente sì, volevamo fare una gita. Purché torniamo nel primo pomeriggio: è di turno in ospedale.» Rispose Pautasso.

«Sasà ha il morbillo, Signor Capitano, non posso chiedere a mia moglie di venire.» Disse l’altro.

«Fra le tue tante cugine e nipoti, Pellegrino, non ne hai una dell’età giusta da far passare per la tua fidanzata, che possa venire e soprattutto che sappia tenere la bocca chiusa, se vi vede tornare con un pacchetto?».

«Posso chiedere alla figlia di mio fratello Salvatore, ha ventidue anni e si sta laureando in matematica. Se permette, vado a telefonarle per chiederglielo».

Catania e Pautasso rimasero soli nell’ufficio del comandante. Il brigadiere ne approfittò per far cadere lì, come se niente fosse: «Sarà anche un’occasione per girare disarmati, a volte mi sembra di essere ancora in Kosovo.» A forza di frequentare gli indigeni, anche il bravo piemontese aveva imparato a dire una cosa per significarne un’altra.

«E quando mai un carabiniere gira senza la sua arma, Pautasso? Comunque, se vuoi sapere se le signore corrono dei rischi, posso risponderti di no: se non ne fossi sicuro non vi avrei chiesto di portarle con voi. Dovete però raccomandare loro di non raccontare in giro i dettagli della gita. Puoi fidarti di Maria?».

«Signorsì, finirà che dovrò proprio decidermi a chiederle di sposarmi, ma tanto lo volevo fare uno di questi giorni».

Pellegrino confermò che la nipote Concettina era felice di fare una gita con lo zio e che era stufa di restare in casa a studiare.

«Dì un po’, Pellegrino, Concetta tua zia, Concetta tua nipote: quante Concette avete in famiglia?» Chiese ridendo Pautasso, quando furono fuori dell’ufficio del capitano.

«Quindici, no sedici, l’ultima l’abbiamo battezzata la settimana scorsa. Cettina è il genio di famiglia: tutta trenta e lode, si sta laureando in matematica con una tesi sulle stringhe».

«E che c’entrano le scarpe con la matematica?».

«Ho detto stringhe, non scarpe: una cosa complicatissima pare. E poi cosa vuoi che ne sappia io di matematica, era festa grande in casa quando mi davano quattro di matematica, una volta ho preso meno undici».

A suo tempo Pautasso, di matematica, viaggiava addirittura sul sei e mezzo, ma non gli sembrò il caso di infierire sull’amico. Il mattino dopo, però, guardò per bene il genio con gli occhioni neri e sperò che Maria non diventasse gelosa; per fortuna le due ragazze fecero subito amicizia e la gita sino al famoso convento fra le colline fu una bella passeggiata estiva, non faceva nemmeno un caldo insopportabile.

Come da ordini entrarono mescolati ai turisti, Pautasso consegnò la busta datagli da Catania ad uno dei frati e dopo dieci minuti vennero invitati a recarsi nello studio del priore; le due ragazze restarono in una specie di anticamera o sacrestia ad ammirare dei mobili barocchi che avrebbero fatto la fortuna di un museo.

Il priore non era solo: seduto ad un ampio tavolo, gemello di quello della sacrestia, c’era un frate vecchissimo. Se aveva meno di novanta, novantacinque anni voleva dire che li portava proprio male, ma più probabilmente aveva abbondantemente passato i cento: la barba lunga sino alla vita e i capelli bianchissimi, la carnagione scura, gli occhi ancora vivacissimi e scintillanti: nell’insieme l’aspetto di un saraceno, come quei mullah che a volte si vedono in televisione. Teneva una mano magrissima, addirittura scarna, posata su di un pacchetto delle dimensioni di un grosso libro, avvolto in tela come quella delle tonache dei frati, legato a spago doppio e ricoperto di bolli di ceralacca. I due carabinieri si sentirono più intimiditi dalla vista del vecchio che dallo sguardo severo dell’altro cappuccino.

Il priore si avvicinò al pacchetto ma il vegliardo non spostò la mano. «Fra Gerardo, vi rammento il vostro voto.» Disse con voce ferma il priore.

«Avete ragione, è giunta l’ora.» Il vecchio si alzò, fece una leggera carezza con la punta delle dita al pacchetto e aggiunse: «Pax vobiscum», non si capì se diretto all’involto o ai due carabinieri, che guardavano la scena facendo finta di non essere stupefatti.

«Consegnerete questo involto al segretario di Sua Eminenza: vi sta aspettando.» Disse il priore una volta rimasti soli. Stette in silenzio per qualche minuto, guardandoli con occhi tanto severi da sembrare feroci, e aggiunse: «Sono sicuro che sapete obbedir tacendo. Metterete il pacchetto in questa busta di carta, è di quelle che usiamo per vendere ai turisti i ricordi del convento: servirà a mimetizzarlo quando uscite. Ringraziate il Capitano Catania da parte mia».

«Comandi, signorsì!» Non lo fecero apposta, scappò loro di bocca, ma non ebbero l’impressione di essersi sbagliati, nemmeno quando il cappuccino li benedisse – loro o il pacchetto? – con un segno di croce.

Il viaggio di ritorno fu stranamente silenzioso, ma la giornata era splendida, il paesaggio estivo meraviglioso e quando lasciarono a casa le ragazze tutti erano di buon umore. I due carabinieri furono ancora più di buon umore dopo aver consegnato il loro carico all’arcivescovado ed aver telefonato al capitano, per annunciare la missione compiuta e trasmettere i ringraziamenti del priore.

Il mattino dopo, tanto per cambiare, erano di turno all’alba.

«Ma lo sai, Pautasso, che cosa ha fatto il vecchio frate?».

«Quale dei due? il priore o l’altro?».

«Quello con la barba sino alle ginocchia, Fra Gerardo: ha corretto la tesi di Concettina».

«Come la tesi? che c’entra la tesi?».

«Concettina si porta sempre dietro le bozze nella borsa, ci lavora da più di un anno e le studia in continuazione, la prendiamo anche in giro in famiglia. Ieri aveva avuto un’idea, aveva tirato fuori il pacco dei fogli e se li stava guardando sul tavolone della sacrestia. Dice che è uscito un frate vecchissimo con la barba, ha dato passando uno sguardo distratto ai fogli, le ha tolto di mano la biro e ha cominciato a correggerli: cancellava un pezzo qua e scriveva una formula là, girava la pagina e correggeva qualcosa; dice che tac, tac, tac, nei cinque minuti che abbiamo passato col priore, se l’è corretta tutta. Dice che era piena di errori, niente di grave, ma che adesso è proprio giusta e la può portare al relatore. Ma tu hai idea di chi è quel frate?».

«E come faccio a saperlo? I conventi sono pieni di gente strana: sembra che da qualche parte ci sia persino un generale dei carabinieri».

 

Scusatemi, avevo finito di raccontare e stavo uscendo, ma vedo che si sono alzate delle mani – poche per fortuna – cosa volete sapere? Chi è lo stramaledettissimo frate barbuto? Perbacco, signori, un po’ di rispetto. È un personaggio importante, dovreste conoscerlo. E poi proprio oggi è il suo centoseiesimo compleanno…

Va bene, facciamo finta di essere in televisione, vi darò un aiutino: se proprio non lo riconoscete, cercate su Google “vivacissimi e scintillanti: nell’insieme l’aspetto di un saraceno” e lo trovate subito.

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Tragedia in famiglia

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“È stato lui.” Pensò ad altissima voce Pellegrino, rivolto al compare.

“Ma certo che è stato lui.” Rispose Pautasso, urlando nel più assoluto silenzio.

Il ventenne che stava parlando con i due carabinieri era, con tutta evidenza, messo molto male. In primis perché gli era sparita la famiglia: padre, madre e zia vedova; in secundis perché raccontando gli eventi ai fratelli Branca era riuscito a convincerli della sua colpevolezza anche solo dichiarando le proprie generalità; in terzis – lo so che non si dovrebbero usare né secundis né terzis, ma rendono l’idea – perché aveva proprio una faccia e un fisico adatti a quelle generalità: Euforbio Zebedei. Non sto a descriverveli, ognuno di voi può immaginarsi quelli che preferisce in base agli euforbizebedei che ha conosciuto.

Tutta una vita di appelli scolastici con quel nome e cognome – quando non con il più ministeriale cognome, (virgola di separazione ben udibile) nome – lasciano le stimmate e fanno pensare a tutti che prima o poi prenderai un’accetta e farai fuori i colpevoli di un tale abominio, nonché tutto il parentado a portata di mano.

Euforbio Zebedei, anche se forse inconsciamente, lo sapeva benissimo ed aveva un alibi a prova di bomba.

«Sono arrivato questa mattina in aereo.» Disse. «Ho dato un esame ieri pomeriggio in Bocconi, l’ultimo dell’anno; questa mattina mi aspettavo che venissero a prendermi in aeroporto, ma non c’era nessuno. Ho telefonato un paio di volte ma non mi hanno risposto, li ho aspettati quasi un’ora e poi mi sono rassegnato a spendere i soldi di un taxi da Punta Raisi a qui e ho trovato la casa vuota e la posta degli ultimi giorni abbandonata nella cassetta. Sulla segreteria telefonica c’è solo il mio messaggio di ieri sera, in cui li avvertivo che arrivavo a casa una settimana prima, perché ho anticipato l’ultimo esame».

“Peccato, speravamo di aver già risolto il caso.” Pensarono, all’unisono ma molto più piano, Pautasso e Pellegrino. E poi continuarono a pensare, perfettamente sincronizzati: “Bisogna ancora fare un bel po’ di verifiche, però, e poi perché mai…”.

La risposta al “perché mai” arrivò subito.

«Mi rendo conto che è strano chiamare i carabinieri, senza prima fare delle ricerche e dei controlli, ma non saprei come farli: non abbiamo parenti a Palermo e i miei non hanno amici in città. Non ho provato nemmeno a chiedere nei negozi qui intorno, tanto sono sicuro che non mi saprebbero o vorrebbero dire niente, qui praticamente nessuno mi conosce».

«I vicini di casa?» Domandò Pautasso.

«Lo studio medico al pian terreno oggi è chiuso, ho provato ugualmente a suonare ma non mi ha risposto nessuno. Al piano sopra questo abita una signora che ha passato i novant’anni, è molto sorda e un po’ rimbambita, quando ho suonato al campanello – ha aspettato che lo facessi tre o quattro volte – ha urlato di andare via o chiamava i carabinieri. A quel punto tanto valeva che lo facessi io e ho telefonato al 112».

«Ma i suoi genitori non potrebbero essersi presi qualche giorno di vacanza,» continuò Pautasso, «in fin dei conti lei è arrivato una settimana prima del previsto…».

«Non ne fanno mai in questo periodo e poi mia zia è anziana e malferma di salute, vanno solo alle terme tutti insieme una volta all’anno in bassa stagione: spendono poco e si curano. Inoltre la macchina è in garage, si muovono sempre e solo con la macchina».

«Non potrebbero essere in ospedale, magari per un incidente…”. Si provò a chiedere Pellegrino.

«Mi avrebbero avvertito e poi tutti e tre in ospedale mi sembra impossibile, e come fanno ad aver avuto un incidente se l’automobile è nel box in fondo al giardino?».

«Ha ragione.» Disse Pautasso. «Pellegrino prova un po’ tu a farti dire qualcosa dalla vicina di sopra, magari con un carabiniere siciliano in divisa ci parla».

Ci volle un bel po’ prima che l’appuntato riuscisse ad ottenere un “che volete?” attraverso una porta con quattro serrature.

«Carabinieri, Signora, vorremmo parlarle».

Dopo un innumerevole numero di scatenacciamenti la porta si socchiuse, protetta da una catenella di sicurezza che sarebbe andata bene per l’ancora di un traghetto della Tirrenia.

«Siete venuti ad arrestarlo?» Urlò, come fanno spesso i sordi, una specie di prefica vestita di nero.

«Chi, Signora?» Dovette chiedere tre o quattro volte a voce sempre più alta il povero carabiniere.

«Quello di prima, quello che mi voleva violentare».

«Quello era il signor Zebedei, Signora. Stava cercando i suoi genitori, che sembra non siano in casa da qualche giorno, li ha per caso visti di recente?».

«No che non li voglio vedere, cercano sempre di violentarmi, anche la malata, che poi se ti baciano una si prende la tisi o il mal francioso…».

«Grazie, Signora, lei è stata molto gentile.» La salutò Pellegrino prima di scendere le scale, inseguito dall’urlo della parca che comunicava all’universo mondo: «Signorina sono».

Gli altri due aspettavano sulla porta di casa Zebedei ed avevano sentito tutto, perfino il giovane non poteva fare a meno di sorridere.

«Immaginavo che avrebbe detto qualcosa del genere, sono contento che l’abbiate sentita con le vostre orecchie: gli amici a Milano non ci credono quando lo racconto».

«Certo che come testimone è molto utile.» Commentò Pautasso. «Signor Zebedei, lei ha già guardato in tutta la casa?».

«Sì, naturalmente. Le camere sono grandi come usava in queste vecchie case siciliane, ma poche; ho posato le valige dove le vedete qui nell’ingresso e li ho cercati in tutte le stanze, poi ho visto che c’erano dei messaggi sulla segreteria, ma è solo il mio di ieri sera. Sono andato a guardare in garage perché potevano essere venuti in aeroporto all’ora sbagliata o aver avuto un incidente sul percorso, ma c’è la macchina. Come vi ho già detto ho suonato dal medico e dalla signora, pardon signorina, Platania e poi vi ho chiamati».

A questo punto i due carabinieri dovevano incominciare a comportarsi sul serio da carabinieri e dare il via alle indagini.

«Ha toccato qualcosa in casa, Signor Zebedei?».

«Solo le maniglie delle porte, credo, e il pulsante della segreteria telefonica. Il 112 l’ho fatto dal cellulare perché le chiamate di emergenza sono gratis».

«Dovrebbe venire al comando per la denuncia, Signor Zebedei. Magari è meglio chiamare un taxi, se non desidera farsi vedere a salire sulla nostra macchina davanti a tutti i vicini che, come al solito, staranno appostati dietro le finestre».

«Che vadano al diavolo i vicini, nemmeno li conosco. Mi va benissimo se mi portate voi, così non spendo i soldi del taxi. Ne ho già buttati via abbastanza per venire sin qui dall’aeroporto».

 

Mentre Pellegrino cominciava a verbalizzare con tutta calma i dati personali del denunciante, Pautasso corse ad avvertire il capitano Catania che avevano un cliente delicato: uno la cui denuncia poteva finire o nel nulla o su tutti i telegiornali per settimane.

Catania ascoltò il rapporto sulla situazione, non c’era poi molto da ascoltare, tirò un sospirone, diede uno sguardo alle pile di carte che ingombravano la scrivania: il venerdì prometteva di essere peggio del giovedì, che a sua volta… Si alzò e venne a vedere di persona quell’inverosimile Euforbio Zebedei che Bibì & Bibò avevano pescato quella mattina.

«Buongiorno, Signor Zebedei, sono il capitano Catania. Il brigadiere Pautasso mi ha detto che sono scomparsi i suoi genitori e sua cugina».

«Mia zia, Capitano, la sorella maggiore di mio padre».

«Che età avevano i suoi genitori?».

«Perché dice avevano, non penserà mica che siano morti?» Fu la secca risposta.

«Mi scusi, deformazione professionale, ma ha ragione: l’uso del passato è quantomeno prematuro e spero proprio che non si debba mai usare in questo caso. L’età ci interessa per capire se possano aver perduto la memoria o aver fatto qualcosa di strano».

«Mio padre ha sessantaquattro anni, mia madre cinquantanove e zia Ersilia settantacinque. Sono anziani ma non hanno problemi neurologici, nemmeno mia zia che è malata ma di disturbi reumatici e cardiaci».

«E dice che non sono abituati ad allontanarsi di casa senza avvertirla».

«Al massimo durante la bella stagione vanno qualche mezza giornata in spiaggia e ad ottobre passano sempre tre settimane alle terme, ma in quel periodo io sono già a Milano».

Catania decise che tanto valeva che il gioco lo conducesse lui. Nome e cognome, uniti alla faccia ed all’aspetto fisico del giovane, erano talmente lombrosiani da meritare il suo intervento.

«Che lavoro fa suo padre?».

«È pensionato, per tutta la vita ha fatto l’impiegato in Pirelli a Milano, mia madre è casalinga mentre mia zia ha una pensione di reversibilità del marito. Vive con noi da quando è rimasta vedova diciotto anni fa».

«Lei studia a Milano, mi hanno detto».

«Ho finito il secondo anno di Economia in Bocconi, ho dato ieri pomeriggio l’ultimo esame e sono venuto a Palermo con una settimana di anticipo sul previsto».

«E ha trovato questa strana sorpresa. Solo per curiosità, Signor Zebedei, che voto ha preso?».

Il giovane guardò bene diritto in faccia Catania che si sentì leggermente a disagio.

«Vuole sapere se ho sterminato la famiglia per nascondere un fallimento negli studi? Ho la media esatta del trenta e lode, mi stanno già facendo proposte di lavoro interessanti, ma prima devo prendere la laurea specialistica e non mi dispiacerebbe un dottorato ad Harvard».

«Non intendevo… No, ha ragione, volevo sapere proprio quello: è inutile nasconderglielo. A questo punto le chiedo subito chi potrebbe trarre vantaggio dalla scomparsa dei suoi parenti, ci sono altri eredi oltre a lei?».

Altro sguardo inceneritore.

«Non ci sono eredi: la casa è mia e miei sono i soldi in banca e i titoli che troverete con i vostri accertamenti, i miei genitori e la zia vivono solo con la pensione di mio padre e di ciò che avanza di quella di zia Ersilia dopo le cure. Io li aiuto un poco, ma non spendono molto».

Catania e Bibì & Bibò non ebbero nemmeno bisogno di guardarsi: anche quel movente finiva nel nulla.

«Quindi l’appartamento dove vivete è intestato a lei?».

«Tutta la casa: il dottore e la vecchia rimbambita del secondo piano sono affittuari da sempre. Prima che mi faccia altre domande sulla mia situazione patrimoniale, le darò io le informazioni che le mancano. Mio padre è di Milano mentre la mamma è originaria di Siracusa, si sono conosciuti durante una vacanza a Roma e dopo il matrimonio sono andati a vivere a Milano. Io sono nato quando avevano già una certa età e mi hanno dato il nome di uno zio della mamma che stava a Palermo: Euforbio, Oronzo, Aristarco. E meno male che sui documenti compare solo il primo nome, come potrà immaginare è già stata abbastanza dura così. Il prozio non aveva eredi e quattro anni fa ha lasciato tutto a me, casa e denaro, ma con la clausola che non si vendesse la proprietà per almeno dieci anni e non si desse lo sfratto agli inquilini. Papà era appena andato in pensione e allora si sono trasferiti in Sicilia: era inutile pagare l’affitto a Milano avendo dove vivere qui».

«Quindi lei ha finito le superiori a Palermo è poi è tornato a Milano alla Bocconi».

«In Bocconi. No, Capitano, ho preferito restare in un collegio di Milano e finire il liceo classico là; in fin dei conti i soldi sono i miei e ho ritenuto che l’investimento valesse la pena».

«Ah, è per questo che non conosce i vicini di casa.» Intervenne Pautasso.

«E non ci tengo a conoscerli. Vengo qui per le vacanze, ma passo quasi tutto il mio tempo a studiare in anticipo il programma dell’anno accademico successivo.» Rispose secco Euforbio Zebedei.

Al capitano Catania quel tipo cominciava a stare davvero sugli zebedei, anche se forse poteva avere i suoi bravi motivi per fare tanto l’antipatico: non doveva aver avuto una vita facile.

«Mi ha detto che lei aiuta economicamente i suoi parenti, saprebbe dirci se negli ultimi tempi hanno fatto spese strane, se hanno speso somme importanti intendo o se ci sono stati movimenti finanziari insoliti?».

«Posso dirglielo con certezza perché controllo il loro conto corrente via Internet e, se qualche volta l’anno hanno proprio bisogno di fondi, faccio dei bonifici dai miei conti al loro, sono soldi che poi riprendo quando gli arrivano le tredicesime delle pensioni. Pago io con un bonifico dal loro conto anche la permanenza alle terme tutti gli anni. Non hanno fatto nessuna spesa inconsueta, consumano tutta la pensione senza risparmiare niente ma non hanno uscite strane».

Che bravo figliolo generoso, gli zebedei di Catania erano tutti ammaccati a forza di sostenerlo. Il capitano si vendicò del malumore che gli faceva venire, costringendolo a spendere dei soldi per andare in albergo: la casa doveva restare a disposizione per i rilievi scientifici.

 

Partito il forse orfano, dopo essersi fatto consigliare un albergo che non costasse troppo, con il taxi a proprie spese naturalmente, il capitano Catania stette a guardare i suoi segugi.

«Visto che dai primi controlli non risultano ricoverati in nessun ospedale di Palermo e dintorni,» disse l’ufficiale, «dobbiamo prendere la cosa sul serio e pensare al peggio: non possiamo permetterci che fra un paio di giorni ne trovino i cadaveri tagliati a pezzi in qualche cassonetto delle immondizie, magari dietro il Teatro Massimo come siete abituati voi due. Come minimo dobbiamo dimostrare di esserci dati ben da fare con la caccia, caccia in tutte le direzioni intendo».

«Capitano, pensa che sia stato lui?».

«È difficile ma non impossibile. Quello che è certo è che fra un paio di giorni cominceranno a insinuarlo i giornali e fra una settimana ci crederanno anche in procura. Se qui a Palermo salta fuori qualcosa pro o contro di lui, dovrà essere a prova di bomba, penso però che i colleghi di Milano troveranno subito le prove che non si è mosso da là. Tenete presente che uno che prende quei voti alla Bocconi, anzi “in Bocconi” come ha tenuto a farci notare, non è per niente stupido e se è responsabile della sparizione ha fatto le cose per benino.

Adesso andate e cercate di scoprire qualcosa».

 

Pautasso e Pellegrino cominciarono preparare un piano d’azione.

«Cominciamo dai vicini o dai negozi?» Chiese Pellegrino.

«Dal dottore del pian terreno, se sono arrivati da Milano senza conoscere nessuno è facile che lo abbiano scelto come medico di famiglia. In questo caso sa dirci come stanno realmente di salute e magari ha visto qualcosa i giorni scorsi. Hai preso il suo nome quando eravamo là?».

«Ma mi prendi per scemo, certo che ce l’ho il nome, basta che cerchiamo il numero sulle Pagine Bianche di Internet».

“Basta che”, facile credere nei miracoli della tecnologia moderna: il numero c’era ma l’indirizzo era quello che conoscevano già nella casa degli scomparsi. Provarono lo stesso a telefonare senza ottenere risposta, provarono con l’ordine dei medici di Palermo ma avevano solo quello stesso numero, provarono a cercare sugli elenchi di carta ma sempre con lo stesso risultato. Disperato Pautasso telefonò in ospedale a Maria per vedere se riusciva a sapere qualcosa; dopo la prevista rampogna: “Mi telefoni solo per dirmi che sei bloccato da un’indagine e la sera non ci vediamo o per chiedermi un favore”, la morosa del sottufficiale promise di chiedere in giro e di richiamarlo sul cellulare in caso di successo.

I due carabinieri erano quasi arrivati alla palazzina degli Zebedei, mentre aspettavano informazioni sul dottore tanto valeva fare un giro per il vicinato, quando arrivò la telefonata di Maria. Il dottor Calì era molto anziano, tanto anziano da essere stato il medico della mutua del suo primario di urologia quando era bambino, il capo di Maria sapeva dove abitava ma non aveva il numero di telefono; per fortuna era vicino allo studio e furono subito lì.

Era anziano davvero, quasi quanto la rimbambita signorina Platania, per fortuna era lucidissimo e pimpante come se avesse avuto vent’anni di meno. Non aveva molte informazioni ma quelle poche furono precise ed utili: nessuno della famiglia Zebedei – erano davvero suoi pazienti, fra i pochissimi che gli restavano, alla sua età avrebbe evitato di prenderli quattro anni prima, ma erano i parenti del povero Euforbio… – aveva problemi di memoria, anzi; li aveva visti lunedì mattina, martedì lo studio era chiuso e né mercoledì né giovedì aveva avuto loro notizie.

Gli chiesero se ne fosse sicuro e seppero che la signora Ersilia aveva l’abitudine di girare per casa con delle ciabatte con il tacco che facevano un rumore molto caratteristico, rumore che non si era sentito così come gli altri suoni tipici di una casa abitata; alla sua età ci sentiva ancora benissimo e ne era con evidenza molto orgoglioso.

Gli chiesero ancora – senza fargli violare il segreto professionale beninteso – se le condizioni di salute dei suoi vicini fossero tali da rendere possibile un improvviso ricovero in ospedale e ne ricavarono che nessuno di loro aveva niente di particolarmente preoccupante, persino i problemi di salute della signora Ersilia, se continuava a curarsi, l’avrebbero lasciata vivere sino a cent’anni, aveva visto certi casi lui… e comunque, quando tutti gli anni andavano alle terme, faceva la prescrizione affinché almeno parte delle cure venisse passata dal Servizio Sanitario Nazionale. Figurarsi se si sarebbero fatti ricoverare senza dirglielo e senza ricetta, parsimoniosi come sono…

 

Bene: perlomeno potevano circoscrivere la scomparsa degli Zebedei al periodo che andava dal lunedì pomeriggio alla notte fra martedì e mercoledì. Già che erano lì potevano passare dalla casa e vedere se i colleghi stavano facendo i rilievi, poi avrebbero chiesto in giro ai vicini se avevano visto qualcosa di strano, ma tanto erano sicuri che nessuno avrebbe aperto bocca per dire qualcosa di utile.

I colleghi erano già lì assieme allo Zebedei figlio, venuto a prendere le sue valige. Confermarono che la casa non presentava il minimo segno di disordine e non c’erano tracce di effrazione su porte e finestre, anzi tutto era tirato a lucido e pulitissimo e a prima vista risultavano solo le impronte digitali – molto poche a dire il vero – di tre persone e quelle sulle maniglie e sul pulsante di ascolto della segreteria lasciate verosimilmente dal figlio, al quale avevano già chiesto di poterle prelevare per un confronto.

«I suoi tenevano la casa in perfetto ordine, Signor Zebedei.» Disse Pautasso, che ormai riusciva a pronunciare quel cognome senza rischiare di mettersi a ridere.

«Mia mamma è sempre stata maniaca dell’ordine e della precisione, anche quando abitavamo a Milano ha sempre cominciato a pulire la casa la mattina alle sei, passava lo straccio persino sui miei quaderni mentre facevo i compiti».

 

«Ci credo che il povero Euforbio ha preferito restare in collegio a Milano,» rise Pautasso mentre cominciavano il loro giro a piedi del vicinato, «con una madre simile. Dì, Pellegrino, sei sicuro che non sia parente di tua zia Concetta, hanno le stesse abitudini».

«Di zia Concetta ce n’è una sola.» Rispose l’altro. «Speriamo piuttosto che qualcuno abbia visto qualcosa».

Qualcosa era stato visto e sorprendentemente venne riferito: i vicini di fronte avevano visto le luci accese la sera di lunedì, ne erano sicuri perché il neon della luce pubblica era bruciato come al solito e, quando erano tornati a casa dal ristorante quella sera, la sola illuminazione proveniva dalle finestre degli Zebedei. Altri ragni non fu possibile rintracciare in alcun buco ed i due dovettero accontentarsi di aver ristretto ulteriormente il periodo in cui era avvenuta la scomparsa.

Il capitano Catania dovette accontentarsi anche lui ma, sinceramente, non si aspettava di più. Diede loro le istruzioni per il giorno successivo e li mandò a casa.

I nostri eroi passarono il sabato a cercare un taxi che avesse caricato tre persone anziane, due donne e un uomo, il martedì da quelle parti. A piedi non potevano essersi allontanati, la signora Ersilia faceva fatica a camminare, la macchina era in garage ed era inutile pensare ai mezzi pubblici, visto che proprio quel giorno – anche quel giorno – erano in sciopero a causa di un astruso rinnovo del contratto di lavoro che andava avanti da otto mesi.

La domenica non erano di servizio e si fecero i fatti loro. In compenso lo Zebedei figlio ruppe abbondantemente i medesimi al capitano Catania: voleva sapere quando poteva tornare a casa e lasciare l’albergo. In fin dei conti non era una richiesta insensata, ma il povero Euforbio stava ormai così antipatico all’ufficiale che si sentì rispondere: “Rebus sic stantibus, non prima che vengano rintracciati i suoi parenti.”, lasciando intendere “vivi o morti”, roba da Far West.

Lunedì mattina il capitano mise un po’ di fuoco al culo dei suoi cacciatori: in procura stavano cominciando a spazientirsi ed anche la stampa aveva incominciato a ficcare il naso, se non si sbrigavano finivano tutti a “Porta a porta” con contorno di sociologi e criminologi d’accatto.

Il bruciore al fondo dei pantaloni non produsse però alcun risultato, in compenso arrivò da Milano la conferma dei colleghi: Euforbio Zebedei era considerato un genio e si scommetteva su a quale età sarebbe diventato governatore della Banca d’Italia e dozzine di testimoni erano pronti a giurare che non si era mosso dal capoluogo lombardo; inoltre sembrava che chiunque parlasse con lui di economia per cinque minuti, si dimenticasse immediatamente del suo nome obbrobrioso e del suo aspetto da secchione sfigato. Sfumava così anche il sospetto – la speranza forse – che avesse fatto fuori i congiunti per vendetta onomastica. Naturalmente le verifiche bancarie non dissero nulla di diverso da quello che già si sapeva. Buio completo come al solito.

 

Tanto per cambiare, Pautasso e Pellegrino quel lunedì facevano il doppio turno: cioè il mattino e poi la notte a partire dalle ventidue.

Inevitabilmente quella sera furono loro ad essere avvertiti dal comando di correre a casa Zebedei: i vicini di fronte avevano visto le luci accese in casa ed avevano telefonato.

La pantera arrivò sotto la palazzina a luci e motore spento per non farsi notare. Figuratevi, si capiva benissimo che, dietro le finestre di metà della via, occhi curiosi ed aguzzi stavano in agguato. Il portoncino d’ingresso si aprì in silenzio usando solo un po’ di buona volontà: cioè la tessera fedeltà di un noto supermercato, flessibile al punto giusto per far scattare lo scrocco, non c’era carabiniere o ladro di Palermo che non ne avesse una in tasca.

I sigilli sulla porta di casa Zebedei erano stati strappati.

I nostri eroi si piazzarono pistola in pugno ai due lati della porta e bussarono energicamente.

Un ticchettoso rumor di ciabatte si fece udire sempre più forte, lasciando capire ai due chi avrebbe aperto la porta.

La signora Ersilia era sull’uscio e, un poco più indietro, papà e mamma Zebedei guardavano con aria stupefatta i fratelli Branca alla loro porta.

Non stettero nemmeno a chiedere perché avessero commesso il reato di strappare i sigilli, la domanda fu: «Dove siete stati questi sette giorni, ché vostro figlio ha denunciato la vostra scomparsa».

«Ma Euforbio è a Milano per gli esami.» Fu la coerente risposta.

«È tornato prima perché ha finito gli esami in anticipo, è arrivato venerdì mattina».

I tre vecchi piombarono a sedere su altrettante sedie della cucina. Mamma Zebedei trovò la forza di chiedere: «Come sono andati gli esami?».

«Tutti trenta e lode come al solito. Dove eravate?».

«In crociera, l’aria di mare mi fa bene ai miei reumatismi.» Rispose Ersilia.

«Era un last minuto che ci hanno fatto in agenzia, ci sono anche venuti a prendere e ci hanno riportati a casa a gratis con il pulmino.» Aggiunse papà.

«Ma perché non l’avete detto a vostro figlio?».

«Non volevamo farglielo sapere.» La mamma questa volta.

«Ma perché?».

Adesso toccava di nuovo a zia Ersilia: «Ci conta i soldi con intrenet, abbiamo risparmiato sul mangiare tutto l’anno, vedrete la scenata che ci farà venendo a casa».

 

E scenata fu. Tanto per incominciare Euforbio voleva indietro i soldi dei taxi e dell’hotel, poi avrebbero fatto i conti per la paura che si era preso, il tempo perso al comando dei carabinieri e per le tre giornate che aveva dovuto studiare scomodo nell’albergo, poi…

 

Non so dirvi se Euforbio Zebedei diventerà governatore della Banca d’Italia, dopo il dottorato ad Harvard naturalmente, ma non lo escluderei.

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Il cornuto

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Il brigadiere Pautasso e l’appuntato Pellegrino arrivarono sul luogo del delitto cinquanta, al massimo sessanta, secondi dopo il fattaccio: erano nella strada a fianco quando sentirono gli spari e dovettero soltanto mettersi a correre e girare un paio d’angoli delle vie. Con tutta la prudenza dovuta alla lunga esperienza, armi in pugno, diedero uno sguardo oltre l’angolo da cui erano sembrati provenire i colpi, pronti a buttarsi indietro prima di ricevere una scarica di proiettili: la strada era vuota, o meglio, quasi vuota. C’erano infatti due corpi a terra e quattro corpi in piedi, questi vistosamente di turisti; mancavano completamente i palermitani che solitamente, a quell’ora, frequentavano la stradina del centro storico; in compenso si vedevano ancora le tende dei negozi ondeggiare dopo l’ingresso frettoloso dei passanti, dimostrazione del fulmineo rigetto di ogni possibile testimonianza.

Fortunatamente le due coppie di turisti si misero subito a disposizione delle forze dell’ordine; i primi a parlare furono due coniugi svizzeri, professori di storia dell’arte a Zurigo, che in un italiano legnosamente perfetto dichiararono: «L’uomo in mezzo alla strada è stato ucciso dall’altro che giace sul marciapiede. Sono usciti dal quel bar correndo, uno dei due ha sparato alcuni colpi all’altro, gli ha dato il colpo di grazia alla testa e poi si è suicidato.» Descrizione chiara e coerente degli eventi da parte di testimoni affidabili, il sogno di ogni carabiniere.

La seconda coppia era ancora meglio, due ragazzi giapponesi che, in un inglese che persino Pautasso e Pellegrino capirono benissimo, dissero: «Stavamo riprendendo la strada con la nostra videocamera ad alta definizione, possiamo farvi vedere subito il filmato.» A meno che Pautasso e Pellegrino non fossero morti e arrivati meritatamente nel paradiso dei carabinieri, voleva dire che quello era il giorno dei miracoli. Il delitto era avvenuto esattamente come descritto dai due svizzeri, in più erano perfettamente identificabili tutti quei testimoni indigeni, così rapidamente scomparsi dalla strada. Prima ancora che arrivassero i colleghi, Pellegrino aveva acchiappato un paio di frequentatori abituali del bar che, costretti dalla nipponica evidenza, gli dissero ciò che può essere così tradotto in italiano: «Calogero è entrato nel bar e ha detto a Salvatore: “Tu mi hai preso mia moglie e io ti ammazzo.” Poi lo ha inseguito in strada, gli ha sparato tre o quattro colpi alla schiena ed uno in testa e si è suicidato».

Caso chiuso prima ancora di aprirlo: se questa volta il capitano Catania non era contento di loro, tanto valeva che chiedessero il congedo. Catania fu molto contento e, una volta tanto, prodigo di elogi.

Le grane incominciarono quando venne interrogata in procura la moglie dell’assassino, causa, secondo le concordanti dichiarazioni di una dozzina di testimoni, dell’intera tragedia. La donna, tarchiatella e con la faccia da tranquilla massaia, sconvolta dall’accusa di infedeltà, smise di piangere e negò nel modo più assoluto di aver mai tradito il marito: conosceva a malapena e di vista Salvatore; non sapeva nemmeno dove abitava; non si sarebbe mai sognata di mettersi con lui; voleva bene a Calogero che era un uomo d’oro, anche se molto geloso. Sfidò chiunque a portare le prove dell’adulterio, si appellò alla Madonna e a Padre Pio, ricominciò a piangere e non smise più.

Era ovviamente possibile che negasse per la vergogna o per la paura delle conseguenze: conseguenze famigliari o sociali, perché carabinieri e magistrato erano stati precisi ed esaurienti nel garantirle che l’adulterio non era un reato e che, se anche avesse tradito il marito, niente avrebbe fatto o potuto fare la legge contro di lei. La testa al toro la tagliò la suocera, la madre dell’omicida, che prese le difese della nuora con tutta la decisione che il suo dolore permetteva. «Calogero era gelosissimo,» disse, «proprio come il suo povero papà che mi faceva fare una vita d’inferno, ma sono sicura che Santina non lo ha tradito».

L’altro problema da affrontare era: dove diavolo l’assassino aveva preso l’arma del delitto. Domanda cretina ma fondamentale, visto che Calogero era incensurato e non era noto per avere rapporti con malavitosi: cretina, perché armi del genere si trovavano facilmente in vendita; fondamentale, perché sapere quando si era procurato la pistola avrebbe potuto far capire se l’omicidio era stato improvvisato o meditato a lungo. La perquisizione a casa dell’omicida non aveva dato risultati: niente armi, niente proiettili, nessun documento, non dico compromettente, ma almeno interessante. La speranza di trovare la classica lettera anonima, nella quale si informava il cornuto della gentilezza che gli faceva la moglie, era andata delusa: arma del delitto e delitto stesso sembravano nati dal nulla.

A casa di Salvatore la perquisizione aveva dato risultati più interessanti: c’erano un gigantesco televisore al plasma, cassette e DVD pornografici sufficienti a rifornire una videoteca del settore, riviste oscene in quantità e un enorme letto matrimoniale, con lenzuola leopardate in stile con la letteratura preferita dall’uomo. I vicini di casa avevano confermato ai carabinieri che c’era un via vai di donne di tutti i colori: anche siciliane? anche siciliane; ne conoscete qualcuna? ma figuratevi, quelle sono donnacce e noi siamo brava gente; qualcuno era venuto recentemente a cercare, magari a litigare, con Salvatore? nessuno.

La conclusione del magistrato fu che Calogero era diventato matto per la gelosia, aveva preso fischi per fiaschi ed aveva sparato alle sue ossessioni che erano state impersonate dal povero Salvatore: chiudiamo subito questa inchiesta ché ne abbiamo già fin troppe aperte.

I due amici quella sera fecero festa a casa di Pautasso: Maria era di turno, Rosalia aveva portato Sasà dai nonni e si fermava qualche giorno da loro, potevano fare gli scapoli e brindare al successo. Si sa come vanno a finire queste cose, si beve troppo e ci si fanno venire strane idee: purtroppo ai nostri eroi vennero idee di lavoro.

«A me non mi quadra.» Incominciò Pellegrino.

«Nemmeno a me.» Replicò Pautasso.

«È stato troppo facile».

«Troppo facile forse no, in fin dei conti tra la testimonianza degli svizzeri, il filmato dei giapponesi e quello che hanno detto i clienti del bar, dubbi su come andate le cose non ce ne sono. Però, ci credi tu, che uno diventa matto così, di colpo, senza un motivo?».

«Un motivo ce l’aveva e anche buono, per uno così geloso. Quello che mi chiedo è perché non ha sparato anche alla moglie. È quello che succede di solito in questi casi: prima uccidono la moglie, con comodo a casa, e poi l’amante».

Pautasso bevve un mezzo bicchiere di vino e disse: «Almeno poteva farle una scenata, che so, riempirla di botte e poi andare a sparare all’altro. Sto cominciando a pensare che è stata tutta una messinscena, che Calogero sapeva benissimo che la moglie non lo aveva tradito e che ha sparato a Salvatore per qualche altro motivo».

«E poi perché si è suicidato? Se avesse ucciso anche la moglie lo capirei, ma così… lì, in mezzo alla strada, senza neanche provarsi a scappare… Cosa ne dici,» propose Pellegrino, «ficchiamo il naso?».

Decisero di ficcare il naso. In quei giorni facevano servizio a piedi in quella zona, potevano risentire i testimoni che avevano già interrogato subito dopo il delitto; se facevano qualche altra domanda apparentemente di routine forse riuscivano a tirarne fuori qualcosa di nuovo, senza che si chiudessero a riccio come al solito.

In effetti, il giorno dopo, i testimoni e i conoscenti delle vittime erano più rilassati del solito, i fatti erano talmente chiari che nessuno aveva troppa paura di essere coinvolto. Circuìti con le debite maniere – diciamo che fecero finta di lasciarsi circuire: mostrare un po’ di spirito collaborativo con gli inquirenti oggi poteva servire come ottima scusa domani, per dichiarare di non sapere niente – gli interrogati qualcosina in più dell’abituale la dissero. La gelosia di Calogero non era tanto nei confronti della moglie ma degli altri uomini: era convinto che cercassero di portargliela via ed aveva fatto scenate in altre occasioni, mai comunque con Salvatore; non era però un uomo violento e nulla poteva far prevedere che le cose finissero così. Tutti confermarono che Salvatore era uno che le donne le guardava, le cercava e le trovava; ma di solito gli piacevano molto, ma molto più giovani di Santina e possibilmente forestiere, solitamente mercenarie e facilmente disponibili; però non disdegnava di certo le siciliane. Anche se non aveva mai avuto a ridire con Calogero a proposito della moglie – riuscirono a capire leggendo per benino fra le righe – ci sarebbero stati altri che avrebbero avuto motivi di discutere con lui su questo argomento; nomi ovviamente non ne vennero fuori, né con le buone né con le cattive. Era già qualcosa ma non abbastanza: soprattutto era incomprensibile perché Calogero se la fosse presa proprio con Salvatore, a meno che, diventato davvero matto, non avesse cercato per farci il tiro a segno il primo noto mandrillo a disposizione.

Pautasso sconsolato disse a Pellegrino: «Ma perché non sono andati a morire dalle parti di tua zia, lei avrebbe saputo persino i segni zodiacali».

«Non è detto, mia zia avrebbe finito per scoprire le corna di Calogero a forza di discorsi da comari, ma Salvatore è un po’ più complicato. Tanto per incominciare si permetteva la casa, il televisore al plasma da cinquanta pollici, tutta quella roba che hanno trovato i colleghi e non aveva un lavoro fisso, va bene che era praticamente incensurato però è evidente che i soldi non li guadagnava onestamente. Le prime idee che mi vengono in mente sono la droga e l’usura…».

«La droga no,» lo fermò Pautasso, «almeno non in casa: hanno fatto girare il cane in tutte le stanze. Restano l’usura, i furti, lo sfruttamento, magari trafficava proprio in donne, visto che gli piacevano tanto, e chissà quante altre possibilità ci sono ancora».

Altro per quel giorno non riuscirono a combinare; il mattino dopo, come c’era da aspettarsi, vennero convocati dal capitano Catania, che li guardò per bene e a lungo e poi chiese: «Visto che proprio non riuscite a non giocare a Sherlock Holmes, spiegatemi cosa c’è che non va questa volta».

«Non siamo convinti, è stato troppo facile».

«E vi lamentate? per una volta che non diventiamo cretini a capirci qualcosa…».

Pautasso, il compito toccava ovviamente a lui, spiegò per filo e per segno quello che avevano scoperto e, soprattutto, quello che non avevano scoperto; poi concluse: «Vogliamo capire perché Calogero, se era diventato matto, non ha sparato ad uno di quelli a cui aveva già fatto scenate di gelosia e vogliamo capire come campava Salvatore, visto che non lavorava e non risulta essere stato un delinquente abituale».

Catania se li guardò per bene di nuovo, pensò che rischiava di mettersi a litigare con il magistrato e il colonnello, tirò il fiato e decise: «Il sostituto ordina di chiudere l’inchiesta il più in fretta possibile. I risultati dell’autopsia non arriveranno prima di un paio di giorni: avete questo tempo per scoprire se è davvero solo un dramma della follia o se c’è qualcos’altro sotto. Non ho suggerimenti da darvi: agite con l’intelligenza guidata dall’esperienza, andate pure.» E, come al solito, abbassò gli occhi sulle pile di documenti che ingombravano la scrivania.

Usciti dall’ufficio del comandante, Pautasso chiese sovrappensiero a Pellegrino: «Non ti sembra che il capitano abbia messo su pancia negli ultimi tempi?».

«No, non mi… ma che razza di domanda è, scusa».

«Non lo so, una cosa così, mi è scappata, per un attimo mi è sembrato di vederlo molto ingrassato. Forse pensavo ancora a tua zia Concetta, che sa tutto di corna e cornuti dalle sue parti, e a quanto mi ha fatto mangiare l’ultima volta che siamo stati da lei».

«Allora Holmes,» cambiò argomento Pellegrino, «da dove cominciamo oggi?».

«Ah, oggi Holmes lo faccio io, visto che ci sono poche speranze di cavare il ragno dal buco… grazie Watson. Proviamo a tornare a rompere le scatole in giro e speriamo che qualcuno vuoti il sacco».

Naturalmente, nonostante il gran numero di scatole fracassate, nessuno vuotò il sacco, né quel giorno né quello successivo. La sera del secondo giorno Pautasso era a cena a casa di Maria, che una volta tanto non era di turno in ospedale, e sperava in una serata piacevole, quando arrivò la telefonata di Pellegrino: «Pautasso, sto venendo a prenderti, c’è uno che mi vuole parlare, ho bisogno di aiuto.» Come potete immaginare Maria non fu per nulla contenta: passi per la piacevole serata svanita, ma ci aveva messo quasi tre ore a preparare il dolce e le toccava mangiarselo da sola o buttarlo via; almeno novecento calorie da smaltire, va beh, avrebbe mangiato insalata per tre giorni.

«Sali, presto,» disse Pellegrino aprendogli la portiera, «abbiamo dieci minuti al massimo. Mi ha telefonato a casa uno che non mi ha detto chi è, vuole parlarmi per raccontarmi la storia di Calogero e Salvatore».

«Ma tu sei matto… e se è una trappola e ti sparano come ti vedono… hai avvertito il comando, almeno?».

«Figurati, avrebbero voluto organizzare un appostamento e tutto il resto, eravamo pronti domani mattina, e quello mi ha detto di andare da solo e mi ha lasciato mezz’ora di tempo. Comunque credo di aver capito chi mi ha chiamato: è uno di quelli che erano al bar l’altro giorno e non è un tipo pericoloso. In questo modo può salvare la faccia, non testimonia, non passa da informatore e forse noi riusciamo a capirci qualcosa. Ti ho chiamato, così se proprio è necessario mi puoi venire ad aiutare e poi puoi sentire anche tu quello che mi dice…».

«Ti ripeto che sei matto a correre un rischio simile… stai attento, accidenti, stavi per tirar sotto quel pedone… ma come faccio a sentire se devi andarci da solo?».

«Ho portato il trasmettitore che usava Rosalia nei primi tempi che abbiamo messo Sasà a dormire nella sua cameretta, voleva sentire se era ancora vivo o se aveva smesso di respirare, io la prendevo in giro ma è sensibilissimo e oggi torna buono. È a pile, io mi metto in tasca il trasmettitore, tu resti nascosto in macchina e stai a sentire la ricevente, se succede qualcosa puoi intervenire. Buttati giù adesso, ché stiamo arrivando.» E, senza lasciare all’amico il tempo di protestare, Pellegrino fermò la macchina, scese e si inoltrò nel buio dei giardini.

Io adesso i discorsi ve li traduco, così li capiamo ancora meglio di Pautasso, visto che il misterioso interlocutore parlava in dialetto stretto.

Pellegrino entrò nel vecchio vespasiano, fece quello che si fa di solito in posti del genere, finì, poi, per prudenza, avvicinò la mano alla pistola e disse, parlando al pisciatoio: «Sono io, mi hai chiamato a casa mezz’ora fa».

Miracolosamente il pisciatoio rispose: «Stammi bene a sentire perché non voglio ripetere. Tu e il tuo amico piemontese state rompendo troppo le scatole, e certa gente se la prende con noi se non vi facciamo smettere, disturbate i loro affari».

«Ho capito, continua».

«Calogero era un fesso a poker, aveva incominciato da un paio di mesi, giocava e perdeva sempre, un vero fesso ti dico. Negli ultimi tempi non lo volevamo nemmeno più nelle partite perché aveva finito i soldi, ma lui voleva rifarsi e si è giocato la moglie con Salvatore e ha perso anche quella, hai capito?».

«Mi stai dicendo che Salvatore gli ha vinto la moglie barando a poker? ci devo credere che gli piaceva una così?».

«Ma che barando e barando, non abbiamo mai barato, perdeva in ogni caso, giocava come un coglione, mai visto un incapace simile. Salvatore disse che, se gli vincevamo anche la moglie, ce lo toglievamo dai piedi, non glie ne fregava niente di Santina, ma l’hai vista che rospo… e quel fesso che faceva tanto il geloso… due giorni dopo gli ha sparato. Un fesso ti dico, non glie la toccava proprio nessuno la moglie a quello… Vattene adesso, e non ti voltare a guardare…».

«Aspetta, la pistola dove l’ha presa?».

«E che minchia ne so io… e non mi cercare in giro che tanto non ne so niente e non ti dico più niente e ci ho i testimoni che giurano che adesso sono con loro al bar».

Tornato in macchina, Pellegrino trovò l’amico che cercava di ridere piano per non farsi sentire; Pautasso continuò a sghignazzare mentre si allontanavano, fatti cinquecento metri anche l’altro incominciò a ridere, rideva così forte che dovette fermare l’auto per non andare a sbattere.

«Ma ci pensi il siciliano geloso che si gioca la moglie a poker…» disse Pautasso, piegato in due dalle risate, «alla fine era davvero solo un dramma della follia, ma la follia era iniziata due mesi fa».

«E che cosa gli raccontiamo domani al capitano? Prove non ne abbiamo.» Chiese Pellegrino quando si furono calmati.

«Gli raccontiamo quello che abbiamo sentito. Saranno tutti contenti che possono chiudere il caso e noi ci siamo tolti la soddisfazione di averlo risolto e di aver capito che non era solo gelosia, sappiamo anche come campava Salvatore».

Il capitano Catania non sapeva se infuriarsi per il rischio che avevano corso o fargli i complimenti, fece tutte e due le cose e li mandò fuori dai piedi.

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